Chiunque voglia tenersi lontano da Sanremo pur amando la grande canzone italiana (inciso: cosa resta di Sanremo, ormai, nella canzone italiana?), potrà dirottarsi su un libro da pochissimi giorni nelle librerie: Storia culturale della canzone italiana di Jacopo Tomatis (Il Saggiatore, 2019, pagg. 815, euro 38).
L’autore, consapevole del fatto che «fare una storia della canzone in Italia non significa “solo” parlare di musica, ma contribuire con un tassello importante a una storia culturale della nostra nazione», opera con questo suo volume un primo studio serio e ragionato del repertorio leggero italiano, finora sempre poco considerato dalla storiografia: e le ragioni sono diffusamente esposte nell’introduzione.
Il percorso storico vero e proprio prende piede dall’affermazione globale di un repertorio italiano, la canzone napoletana (e siamo assai prima dell’Ottocento), per arrivare alla diffusione stabile e organica del repertorio canzonettistico all’inizio del Novecento grazie a radio, dischi, cinema, riviste e canzonieri, tutti strumenti in grado di far nascere quello che Tomatis definisce un «pubblico nazionale».
Dalle origini, si passa a quella che viene definita, nel secondo capitolo, «L’era dei ritmi», ovvero l’avvento della musica ballabile e, a seguire, l’esordio dei cantautori (i quattro che debuttarono per primi? Giorgio Gaber, Gianni Meccia, Umberto Bindi e Gino Paoli) fino all’invenzione della “canzone d’autore”. Ampio sguardo è riservato anche al pop italiano, al folk, al rock, alla canzone “impegnata”, fino al (triste) epilogo del rap e (ancora più triste) del trap.
Facendo, a questo punto, un provvidenziale passo indietro, concludiamo sottolineando un aspetto interessante, nell’analisi di Tomatis, riguardante l’identificazione di “italianità” della canzone: ovvero, cos’aveva una canzone per potersi definire “italiana”? La risposta, per chiunque frequenti un minimo l’opera lirica, appare perfin banale: il carattere prettamente melodico. A questo substrato, Tomatis somma altri “indicatori di italianità” non necessariamente musicali come l’utilizzo «di stereotipi nazionali, di ideologie, di cliché…».