L’arte degli archetipi: le cosmogonie di Alessandro Bulgarini

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L’arte non è decorazione gradevole, né innocuo divertissement da gustare nel tempo libero. L’arte non è messaggio politico, né, tantomeno, ideologica critica sociale.

L’arte non è neppure una solitaria e individualistica ricerca intrapresa dal magmatico e ipertrofico subconscio dell’artista.

L’arte autentica – del cui “grande stile” Nietzsche fu profetico cantore – è un gesto di superamento degli opposti, una pratica di trasformazione interiore che coinvolge tanto l’artista quanto lo spettatore, un’estetica fatta di eccessi e dissipazione creativa.

È questa l’idea di arte che emerge con prepotenza dalle tele di un giovane pittore di Brescia, Alessandro Bulgarini, che col mondo di simboli, miti e archetipi ha stretto un rapporto viscerale.

Una relazione, questa, a tratti carnale, in cui la spigolosità della tela si apre nel vortice di metamorfosi inaudite, quelle che l’artista tenta di imbrigliare con forma e colori senza mai pienamente riuscirvi, restituendo il proprio travagliato avvicinamento – quello sì – alla visione meravigliata (e talvolta turbata) del pubblico.

Studi sul sacro, immersioni nell’Alta Fantasia – questo il titolo dell’ultima mostra di Alessandro Bulgarini (Reggio Emilia, 2017) –, ricerca alchemica, pedagogia dell’immaginazione, omaggi letterari – si ammiri, fra le altre, la serie Indagine sugli esseri immaginari (omaggio a J.L. Borges) –, riflessioni sulle Sette parti del Sé (sulla scia dell’antica e misteriosa concezione spirituale egizia): sono questi alcuni fra i numerosi temi scandagliati dalla pittura archetipica di Alessandro Bulgarini.

Sino ai ritratti quantici, al centro dell’attuale ricerca dell’artista. Che rivela come la trascendenza non vada inseguita in iperuraniche metafisiche né svilita al modo dei riduzionisti, piuttosto riconosciuta, finalmente e di nuovo, nella sua vigorosa, attuale presenza.

È nel vortice della fisica quantistica che l’uomo postumo a se stesso potrà forse riappropriarsi di quell’anima la cui perdita, stando al celebre James Hillman, è inscindibilmente intrecciata alla crisi della modernità.

E l’arte, anche quella contemporanea, se corrisposta da un reale mutamento di sguardo, «rende visibile ciò che non sempre lo è» (Paul Klee).