Applicare la tecnologia ingegneristica a diversi campi della quotidianità, come studiare diversamente e nella maniera meno invasiva possibile le testimonianze del passato; dare una sferzata decisiva all’utilizzo di energie nuove a favore di un ambiente più salubre e proiettato, perciò, ad un futuro meno condizionato da forme di inquinamento. Questi sono solo alcuni settori in cui, da decenni, è impegnato Giuseppe Calabrò, ingegnere calabrese (originario di Reggio Calabria) oggi presidente unico dei corsi di Ingegneria all’Università della Tuscia di Viterbo, dove ricopre il ruolo di professore di elettrotecnica e tecnologie per la fusione nucleare e, altresì, direttore del Cintest, Centro per l’Innovazione Tecnologica e lo Sviluppo del Territorio.
Un ricco curriculum quello di Calabrò, che dopo la laurea in riva allo Stretto ha proseguito i suoi studi ad Oxford, per poi approdare come ricercatore all’Enea (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) trascorrendo diversi anni all’estero diviso tra Inghilterra, Francia, Germania e Cina. Un’attività di ricerca, quella condotta da Giuseppe Calabrò, che si snoda essenzialmente attraverso studi inerenti l’energia da fusione nucleare (un suo lavoro è stato pubblicato dalla prestigiosa rivista Nature), e sulle diagnostiche innovative per i beni culturali. Ed è lo stesso professore Calabrò a parlarci del suo impegno, con il Dipartimento Economia, Ingegneria, Società e impresa dell’Università dove opera.
All’Ateneo di Viterbo, grazie ad una precisa specializzazione formativa sulla fusione termonucleare, dopo l’esperienza maturata all’Enea, state lavorando ad un progetto sulla creazione di energia da fusione. Un argomento che ai più potrebbe risultare ostico, ma che sarebbe bene illustrare per farne comprendere le ricadute positive.
L’obiettivo della fusione nucleare è quello di produrre energia come avviene in una stella, per poi utilizzarla nella vita di ogni giorno. Nella pratica si tratta di riprodurre in un reattore, in maniera controllata, il plasma, ovvero la materia di cui sono fatte le stelle, per utilizzarlo come fonte di energia illimitata, senza emissioni inquinanti e con pochissime scorie. L’Italia si prepara a ospitare un nuovo reattore sperimentale chiamato Divertor Test Tokamak (DTT), ideato dall’Enea in collaborazione con il CNR e diverse università italiane tra cui L’Università della Tuscia. Questa infrastruttura di ricerca dovrà fornire risposte scientifiche e tecnologicamente avanzate ad alcune problematiche particolarmente complesse del processo di fusione (come la gestione di elevati carichi termici, ben superiori a quelli sulla superficie solare). I lavori per realizzare il DTT inizieranno entro la fine del 2018, per concludersi in circa sette anni. Saranno coinvolte oltre 1500 persone con un ritorno stimato di 2 miliardi di euro, a fronte di un investimento di circa 500 milioni di euro. Tra i finanziatori, pubblici e privati, c’è EUROfusion, il consorzio europeo che gestisce le attività di ricerca sulla fusione (60 milioni di euro) per conto della Commissione europea, il MIUR (con 40 milioni), il MISE(40 milioni impegnati a partire dal 2019), la Repubblica Popolare Cinese con 30 milioni, la Regione Lazio (25 milioni), l’ENEA e i partner con 50 milioni cui si aggiunge un prestito BEI da 250 milioni di euro. Ho partecipato sin dall’inizio al disegno di questo esperimento, occupandomi in particolare modo della modellistica numerica dei sistemi elettromagnetici complessi che caratterizzano il processo della fusione termonucleare controllata.
Sempre con il Dipartimento di economia, ingegneria, società e impresa (DEIm) vi siete occupati di un intervento sull’opera La resurrezione di Cristo di Andrea Mantegna e dell’analisi di una Crocifissione, tavola attribuita alla scuola di Michelangelo Buonarroti. Come potrebbe cambiare la diagnostica su preziosissime opere applicando le tecniche che state sperimentando con successo?
A Viterbo, recentemente, abbiamo avviato una proficua collaborazione con la Profilocolore, e i ricercatori di Ingegneria degli atenei di Terni/Perugia, della Calabria e dell’Aquila per l’utilizzo di tecniche non-invasive per i beni culturali. Le tecniche utilizzate sono quelle dell’analisi multispettrale HMI (Hypercolorimetric Multispectral Imaging) e la termografia dinamica Pulse-Compression Termography (PuCT), che permettono di indagare nel dettaglio sia la pellicola pittorica che il supporto ligneo. L’analisi multispettrale consente di caratterizzare i materiali pittorici e studiare la tecnica esecutiva dell’artista. Mentre la termografia impulsata non-invasiva ci offre preziose informazioni strutturali sulla distribuzione in profondità dei materiali nei vari strati della tavola, identificando discontinuità, restauri antichi e stato di conservazione, senza alcuna conseguenza sullo stato dell’opera stessa. Questo tipo di tecniche permette un notevole risparmio sia in termini di costi di manutenzione ed utilizzo di tecnologie simili, utilizzate in particolare nel campo della diagnostica medica, sia in termini di non invasività dell’opera, ossia senza alcun deterioramento della stessa.
Prima di rientrare in Italia, ha lavorato per diverso tempo all’estero, dove ha maturato importanti esperienze nella ricerca. Quali secondo lei, in base al suo bagaglio formativo, i gap maggiori tra il nostro Paese ed altre realtà?
Il nostro Paese investe bene e con efficacia nella formazione dei propri studenti, purtroppo come tutti sappiamo, non è altrettanto in grado a trattenerli e quindi di offrire loro un lavoro consono agli studi fatti e alle proprie aspettative. Proprio per questo, presso l’Università della Tuscia mi sono speso in prima persona per far sì che gli studenti possano essere strettamente a contatto con realtà italiane imprenditoriali di eccellenza ed in effetti molti di loro, i migliori, hanno trovato un’occupazione addirittura prima di terminare la laurea magistrale grazie al programma Young Enterprise Success (YES) stipulato con più di 50 imprese del settore energetico e meccanico che prevede un tirocinio remunerato di 6 mesi “on the job”.
Spesso certe dinamiche di natura tecnica, per la loro stessa essenza, non vengono sviscerate facilmente dai mezzi di comunicazione più immediati, restando sovente argomenti di ‘nicchia’. Crede che sia necessario cambiare modo, da parte della comunità scientifica, di veicolare determinate notizie così da portare a conoscenza del grande pubblico l’importanza di alcune innovazioni?
Certo bisognerebbe aumentare la divulgazione di alcuni temi accrescendo la consapevolezza sull’importanza di determinate ricerche come quella di cui mi sono occupato per diversi anni sulla fusione nucleare, il cui scopo è produrre energia pulita e rinnovabile. Questa, per errore o per mancanza di cultura scientifica, viene spesso confusa, a suo danno, con la fissione che invece come sappiamo produce scorie nucleari difficilmente smaltibili. Sta anche a noi scienziati riuscire a rendere maggiormente “pop” e attrattivi questi temi sia per il pubblico sia anche per i tanti ragazzi italiani che aspirano ad avere un posto in prima fila nell’ambito della comunità scientifica.