Quando si dice che l’arte a volte anticipa i tempi…
Ve la ricorderete tutti quella splendida pubblicità che tempo fa spopolava sui social (almeno, io la scoprii lì), vera e propria pubblicità progresso che, per incentivare il consumo di cultura e l’acquisto e la lettura dei libri, trasformava senza trucchi e senza inganni i volti dei lettori nei volti impressi sulle copertine dei libri che essi stessi tenevano in mano? Era un manrovescio culturale sulla famigerata mania dei selfie.
Ebbene, molto prima, qui in Italia, nel piacentino per la precisione, il pittore Davide Corona (Piacenza, 1981) realizzava ed esponeva in diverse gallerie d’arte in occasione di mostre personali e collettiva una serie pittorica, realizzata con uno stile “più-vero-del-vero” ma che non scadeva mai nel vuoto e meccanico virtuosismo, in cui i volti dei soggetti ritratti affondavano, come in un lago di ricorsività figurativa, nella copertina del libro che stavano leggendo.
C’era la pittura, la pittura giovane italiana, che con uno sguardo ai maestri in special modo americani (David Hockney su tutti, una delle principali fonti della storia della pittura cui attinge il còlto Davide Corona), insisteva su un intimismo tipico di una non indifferente porzione di giovani forse esclusi loro malgrado dal mondo della produzione ma portatori di sane attitudini culturali.
Perché a negare l’identità cancellando i volti dei soggetti son capaci tutti (e in pittura, in specie nella giovane pittura, questa sensibilità è molto avvertita e declinata nelle forme più svariate), ma farlo con quel tocco savio e nello tempo gentile (e dico proprio il tocco, il momento in cui i peli del pennello incontrano la superficie della tela e il polso e il corpo del pittore si muovono nell’azione del dipingere) e che trasforma la tradizione in qualcosa di fresco e attuale parlando a tutti, bene, questo non è da tutti.
Erano gli anni fra il 2007 e il 2011, quelli della serie “dei libri”. Poi Davide Corona ha proseguito il lavoro della pittura sperimentando un tipo diverso di soggetto e composizione, senza tuttavia tradire se stesso: sono gli anni della colorazione “psichedelica” di luoghi abbandonati, ma senza fare ammuina con la solita estetica del luogo abbandonato.
E’ interessante notare come nella produzione di questi anni all’uso del colore squillante si sommi un’attitudine all’incompiutezza, una tendenza a lasciare parziali azzeramenti degli sfondi in cui forse lasciar posto al non detto, che in pittura è il non visibile, talvolta costellato di elementi geometrici circolari che fanno pensare a pixel ingigantiti: sono gli anni di Baudrillard, quelli del dominio dell’immagine bellezza e tu non puoi farci niente.
Con questa produzione, che copre grosso modo gli anni 2012-2014, Davide Corona ha sperimentato un’inedita direzione del suo fare pittorico, meno vicino a un’estetica visiva americana degli anni Sessanta e più affine a percorsi di una certa pittura giovane degli anni Duemila di matrice inglese.
I risultati sono straordinari perché, come sempre accade, non c’è solo quel che vedi ma c’è anche un suggerimento, perché l’arte non indica ma suggerisce: e non è detto che dietro a questi colori sgargianti non ci sia il babau…
E arriviamo ai “giorni nostri”: sempre fedele a se stesso ma rinnovandosi, Davide Corona ci consegna una nuova serie, in cui prevale il piccolo formato, declinata al crossover storico/iconografico, opere di pittura contemporanea in cui il pittore fa quello che ha fatto Umberto Eco scrivendo Il nome della rosa: l’occhiolino al lettore-che-sa. Riferimenti còlti infilati nella prosa in maniera insterstiziale.
Stessa cosa nell’ultima produzione pittorica di Corona: ogni quadro raffigura-trasfigurata una parte di un’opera pittorica appartenente al…conscio collettivo (frammenti di capolavori del passato remoto e prossimo, italiani e non).
In tutto questo c’è una costante: l’immobilizzazione di un momento, un carpe diem con l’uso del colore e a cavallo degli stili.
Perché uno dei segreti-non-segreti del fascino esercitato da certa pittura, di ogni epoca e luogo, è proprio l’incontro con il nostro immaginario e la nostra memoria. Un po’ come succede coi libri e le persone.