Diego Nota: quel tributo all’indistruttibile Fantozzi

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«Sin da piccolo ho guardato i suoi film. Crescendo ho sempre tratto dalla sua opera nuovi significati, fino a quello per me più importante: l’indistruttibilità dei personaggi, specie quella di Fantozzi. Anche i personaggi delle mie sei canzoni hanno questa particolarità, scompaiono dalla vista di tutti, proprio per il loro essere fallibili, per la loro uscita di scena. Ogni singola traccia del disco rappresenta un esercizio per scomparire dal centro dell’attenzione».

Diego Nota spiega così perché dedica a Paolo Villaggio Esercizi per scomparire, il suo nuovo album, un lavoro autoprodotto dai toni low-fi con stile cantautorato e new wave elettronico.

Anticipato dal singolo Kong, arriva a cinque anni di distanza dal precedente Anarchia Cordis. «Le cause di tanta lentezza sono diverse, come ad esempio quella di fare altri lavori per autofinanziarmi. È sicuramente una castrazione intellettuale non poter fare a pieno ritmo ciò che si desidera fare» spiega il cantautore.

Classe 1979, nato ad Atina, in provincia di Frosinone, Diego si avvicina alla musica grazie alla sorella maggiore. «Avevo circa sei anni – ricorda – quando in casa era pieno di musicassette degli Eurythmics, dei primi dischi di Madonna, di Lucio Dalla, dei Duran Duran, dei Tears for Fears, dei Talk Talk». Ma all’epoca non c’era nessuna idea di un futuro tra studi di registrazione e palcoscenici: «Avrei voluto essere un calciatore. Impazzivo per Gianluca Vialli, era il mio idolo. Volevo essere come lui. L’alternativa era quella di diventare un agronomo».

E’ durante l’adolescenza che inizia a cantare. Lo fa in un gruppo di amici: «Avevo una band e suonavamo cover di gruppi progressive italiani degli anni ’70: Banco del Mutuo soccorso, Rovescio della Medaglia, Perigeo, Balletto di Bronzo».

Arriva così il suo primo live, ad una festa dell’Unità del suo paese di origine: «Era il 1994 e, non so se per scelta ideologica o per inerzia intellettuale, nella scaletta decidemmo di mettere pezzi che oggi non avrebbe molto senso suonare: Contessa di Paolo Pietrangeli, Bella ciao, Bandiera rossa; eravamo appena adolescenti, molte cose si facevano senza dare il peso necessario alle parole».

Nel 2000, poi, comincia l’avventura con gli Ultimavera, la band laziale con cui pubblica tre dischi. «Un giorno, senza dare alcun preavviso a nessuno, mi svegliai e decisi di sciogliere il gruppo» racconta. «Non ho mai chiesto scusa per il gesto repentino che decisi di fare. Anche le modalità furono azzardate: scrissi un post pubblico senza avvisare i componenti della band. Chiedo scusa per i modi, ma aggiungo che era l’unica fra le scelte possibili. Ci saremmo sciolti lo stesso di lì a poco, ne sono convinto. Conclusa la storia con gli Ultimavera mi si è aperto un mondo nel quale mi sono trovato da subito bene: il libero arbitrio stilistico».

Nel bel mezzo della sua carriera da solista l’ex Ultimavera ha aperto una parentesi teatrale portando in giro il monologo tragicomico Le ultime lettere degli antropomorfi, mentre nel 2009 ha scritto una raccolta di racconti intitolata L’espansionismo dei pidocchi: «Se avessi continuato a fare teatro sarei senz’altro diventato un punto di riferimento importantissimo per il futuro del teatro italiano, mentre per i racconti ho fatto bene a smettere: mi dilungavo troppo con periodi pieni di subordinate e alla fine scrivevo cose di cui io stesso non ho mai capito nulla».

Oggi, quindi, c’è spazio solo per la musica: «Quando non faccio musica spesso elaboro pensieri negativi. Allora rifletto, prendo la chitarra e strimpello perché la musica è come un grande interruttore che interrompe nella mia mente il flusso dei cattivi pensieri».