Primo maggio: altro che festa, è ora di tornare al fuoco

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Sembra ormai che il 25 aprile non basti a sfogare le frustrazioni del nostrano progressismo d’assalto, ed allora la settimana successiva si ripete e si raddoppia la dose d’imbecillità. Se a Trieste hanno sfilato i novelli titini, cioè coloro che rimpiangono non sia stato ultimato il genocidio degli italiani a nord-est, a Roma quest’anno è stato un 1° maggio un po’ “del cazzo“: passerà così alla storia.

Un’istantanea della nostra società, pronuba e levatrice di una generazione di disoccupati che si fa pagare il biglietto dalla nonna per andare al concerto della Festa dei Lavoratori e che trova il suo massimo apice antropologico nel denudarsi dinanzi a milioni e milioni di persone che, inebetite, applaudono, strepitano e fomentano. Tralasciando il senso di disgusto, rimane il senso di nullità: cosa c’entra un concerto di disoccupati che mostrano le proprie nudità, con la festa di San Giuseppe artigiano, ovvero con la Festa dei Lavoratori? 

Il 1° maggio, come molte feste occidentali, era in realtà festa prima che questa marmaglia amorfa ed amorale potesse anche solo essere concepita dai propri avi, anche ben prima di essere Festa dei Lavoratori e, persino, ben prima di essere la festa cristiana di San Giuseppe artigiano. Il 1° maggio era (ed è) la data in cui si celebra l’antica tradizione dei Fuochi di Beltane. Un’atavica ricorrenza celtica in cui i druidi accendevano dei falò sulla cima dei colli e che vi conducevano attraverso bestiame e persone del villaggio per purificarli ed in segno di buon augurio.

In alcune località della nostra Patria, ove i Celti giunsero -in Friuli, ad esempio- tale tradizione resta, seppur sopita, nel bagaglio culturale delle popolazioni. Chissà se l’atavica radice, il passaggio nel fuoco purificatore, non riesca ad incenerire l’ignorante sorpasso del nulla progressista. Torniamo alle origini, quelle primordiali, solo così potremo ricominciare il percorso e capire dove abbiamo sbagliato.