Salvatores: “Se non lavoro ho paura di vivere”

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salvatores_ilgiornaleoffCi racconta un episodio OFF degli inizi della sua carriera?

Ricordo che in Marrakech Express la cosa divertente è stata che c’erano quattro attori che non si conoscevano tra di loro. Erano Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Gigio Alberti e Giuseppe Cederna, e la particolarità era che il viaggio di quel film è stato fatto davvero dal primo all’ultimo giorno delle riprese. È stato girato in sequenza e quindi anche riscrivendo tante volte le scene mentre eravamo in viaggio. Ad esempio se arrivavamo in un posto dove era prevista una scena in cui i protagonisti passeggiavano al sole e invece pioveva dovevamo di volta in volta cambiare il copione. Alla fine del film queste quattro persone, che non si erano mai viste prima nella vita, sono diventate talmente amiche che ancora adesso si sentono. Una bella cosa in un film che poi parlava proprio di amicizia, di rapporti di amicizia tra le persone.

Lei poi due anni dopo, nel 1992 ha vinto l’Oscar con Mediterraneo. Che reazione ebbe quando ricevette la notizia della nomination all’Oscar?

Chiaramente contento. Però allora avevo in mente una serie di idee un po’ stupide che circolavano e che consideravano Hollywood l’impero del male, come in Star Wars. Quindi per me era come ricevere l’Oscar dalle mani di Darth Vader. Ero un po’ stupido e mi sentivo quasi in colpa: prima per aver avuto la nomination e poi per aver vinto pure l’Oscar. Questo atteggiamento derivava dalla cultura e da quello che si diceva in quegli anni. Hollywood era considerato troppo commerciale e non d’arte. Poi mi accorsi che in realtà era una sciocchezza, anche perché insieme a me, come miglior film americano (Mediterraneo si aggiudicò la statuetta come miglior film straniero) vinse un film bellissimo Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme. Questo dimostra che non è vero che Hollywood è solo commercio. L’Oscar è anche industria, è anche commercio, ma non solo quello naturalmente.

Il 4 gennaio è uscito il suo ultimo film, Il ragazzo invisibile-seconda generazione. Il protagonista Michele è cresciuto. Cosa ha capito ora della vita?

Michele è un ragazzo di 16/17 anni che ha una coscienza diversa da quando ne aveva 12/13 nel film precedente. Questo ragazzo invisibile è un romanzo di formazione di un giovane supereroe. E allora se nel primo film lui scopriva solo di avere questo superpotere e non sapeva bene come usarlo, qui scopre anche il lato oscuro non solo della vita ma il lato oscuro di sé stesso. Dovrà affrontare tutta una serie di problemi più adulti, uno dei quali è trovarsi diviso tra una madre adottiva che gli vuole molto bene e una madre biologica che arriva all’improvviso nella sua vita, così come arriva all’improvviso una sorella che lui non sapeva di avere e con cui dovrà fare i conti. Nel film diventa più adulto anche perché il protagonista è più adulto. E diventa più grande anche il film, nel senso che ha molta più azione e molti più effetti visivi perché la vita stessa del protagonista diventa più complessa.

Come il suo protagonista, tutti prima o poi dobbiamo fare i conti con il nostro lato oscuro…

C’è un bellissimo racconto di Joseph Conrad che si chiama La Linea D’Ombra e dice che ci sono dei bambini che stanno giocando con la palla in un prato al sole, sono felici e spensierati. A un certo punto la palla rotola via e finisce in un bosco lì vicino. Uno dei ragazzini va a raccoglierla e scopre questo ambiente che non conosceva: buio, ombroso, pieno di mistero e con strani animali che strisciano sotto le foglie. Preso dalla paura recupera in fretta la palla un po’ spaventato e torna a giocare, ma non ha più la stessa spensieratezza di prima. E in qualche modo è cresciuto, ha visto che l’altra parte della realtà, o l’altra faccia della luna, il lato oscuro come cantavano i Pink Floyd…

E poi c’è il lato oscuro della società… Come in tutti i film di super-eroi si parla del male, del bene…Secondo lei qual è il male più grande di questa epoca?

Ce n’è sicuramente uno, che è il bisogno di considerarsi il centro del mondo. Se non sei visibile, se non puoi intervenire, se non sei al centro dell’attenzione ti sembra di non esistere. Ecco Il Ragazzo Invisibile paradossalmente usa un potere proprio che è l’incontrario dei Selfie o dei Social Network. Io ho molta paura dell’uso della rete fatta in questa maniera. Da una parte c’è il rischio che ci isoli sempre di più, e dall’altra che il web diventi una specie di Colosseo, di arena dei gladiatori dove uno sfoga le proprie rabbie e le proprie insoddisfazioni. Bisogna stare molto attenti a non lasciarsi tirare dentro in questa che non a caso si chiama rete…si deve fare attenzione affinché non ci catturi. Bisogna vivere nel mondo reale insieme alle persone. Uno dei problemi più grossi del mondo di oggi da una parte è questo, e dall’altra parte è l’indifferenza. L’indifferenza verso le persone che in qualche modo non guardiamo, non le vediamo, sono invisibili. Ad esempio come le persone che magari sono meno fortunate di noi. Anche semplicemente un homeless che incontriamo e che non vogliamo vedere. Secondo me l’indifferenza e l’arroganza sono i problemi più grossi di questo momento.

salvatores_ragazzo_invisibile_ilgiornaleoffNel film ci sono delle metafore riferite alla realtà?

Si, gli “speciali” sono considerati diversi… quasi mostri, oggetto di esperimento. Però è bello che nel film ognuno riesca a trovare quello che vede secondo la propria sensibilità, non ci sono messaggi. Sono delle metafore ma è bello che lo spettatore scelga lui la sua chiave di lettura.

Michele si sente diverso perché speciale. Lei si è mai sentito diverso?

Si, da regista, facendo questo lavoro, vivi in un mondo parallelo, in un mondo finto. A volte anche un mondo consolatorio. E quindi non è questione di essere speciali, è questione di essere un po’ diversi dalla gente che vive la vita tutti giorni. E questo è un problema. Io lo sento come un problema.

Speciale ti senti quando sei giovane. Io quando ero ragazzo portavo i capelli lunghi fino alle spalle e ricordo che mio padre mi diceva “io cammino sull’altro lato del marciapiede”. All’epoca suonavo e frequentavo situazioni e persone che mi sembravano fortemente alternative alla vita normale. Ma il cercare qualcosa di diverso e il non lasciarsi uniformare è tipico dell’adolescenza. Almeno una volta era così. Adesso alcuni lo fanno, altri no.

In questo film ha messo qualche sua paura?

Si, si…non voglio fare troppo spoiler, ma c’è una delle cose che mi spaventa: la paura di non sapere che ruolo hai nella vita. E poi, una molto più intima e particolare è la paura di litigare con una persona a cui vuoi bene e non poter far pace, non poter chiedere scusa. Il nostro protagonista all’inizio del film dovrà fare i conti proprio con un suo grosso complesso di colpa che dovrà superare.

Se lei avesse la possibilità di avere un superpotere quale vorrebbe avere?

Io sono costretto per lavoro a viaggiare molto, adesso per esempio sono in giro da circa quindici giorni senza sosta per l’Italia per la promozione del film, e allora sinceramente un super potere che mi farebbe più comodo è il teletrasporto. Sarebbe fantastico schiacciare un pulsante e trovarsi nel posto dove devi andare. Però se devo essere più intimo e personale c’è una bellissima scena in un film di Woody Allen, in Zelig, quando la psicanalista chiede al protagonista: perché lei si trasforma e diventa uguale alle persone che frequenta? E lui risponde sotto ipnosi: è perché voglio essere amato. Ecco questo sarebbe un bel superpotere da avere.

Nella vita reale chi sono i supereroi?

Secondo me sono quelli che riescono a campare nonostante tutto, ad avere una famiglia e a cercare di fare bene il proprio lavoro. Non abbiamo bisogno di supereroi secondo me. Abbiamo bisogno di gente che faccia bene il proprio lavoro, che abbia la coscienza di vivere insieme ad altre persone e non solo loro al centro del mondo. Gente capace di pensare che questo pianeta è un posto che ci ospita e non è nostra proprietà. Ecco, i supereroi sono quelli che ce la fanno ad andare avanti in un mondo sempre più difficile. Ma sono le persone normali che ce la fanno, quelle che fanno dei figli e che li crescono bene. Secondo me sono questi gli eroi di oggi.

Produzioni come quelle de Il ragazzo invisibile sono insolite nel cinema italiano. Qual è il problema? C’è poco coraggio nel lanciarsi in generi insoliti nel nostro cinema?

Noi per tanti anni siamo stati un po’ oppressi da due “genitori cinematografici” molto importanti che sono il Neorealismo e la Commedia italiana. Sembrava che per tanti anni si potesse fare solo quello, erano le nostre radici. In realtà il cinema è un mare ampio, pieno di tante storie. Di recente per fortuna si è aperta una piccola crepa nella diffidenza del cinema italiano verso i generi. Più di un regista sta cercando di confrontarsi anche con generi diversi, compresa la fantascienza e il fantasy. Bisogna anche dire che in genere si tratta di film più costosi, ma adesso con le nuove tecnologie le cose sono un pochino più semplici e non credo che sia giusto lasciare in mano solo al cinema americano tutto questo mondo fantastico. Anche perché noi, da italiani, possiamo raccontarlo in maniera diversa, da un punto di vista più profondo, più attento alla psicologia dei personaggi e alle storie. Cioè, non bisogna usare gli effetti visivi o gli effetti speciali solo per stupire e per mostrare i muscoli, ma per raccontare una storia che abbia un senso.

Lei ha lavorato con tanti grandi attori. Qual è stato quello che l’ha più sorpresa e quello che l’ha più delusa?

Devo dire che per fortuna non ho avuto grosse delusioni con le persone con cui ho lavorato. Scelgo sempre gli attori con molta attenzione. Lo stesso François Truffaut, regista che amavo e amo tanto, diceva che quando hai fatto un buon cast hai fatto l’80% del film. E lo penso davvero, quindi scelgo gli attori con grande cura.

Così come ho fatto con Diego Abatantuono con cui ho girato tanti film. Lui all’inizio della mia carriera mi ha anche insegnato tante cose. Io venivo dal teatro, lui faceva cinema da tanti anni…ed è una persona con cui ho lavorato bene e con cui tornerei anche a lavorare se capitasse. E poi c’è Fabrizio Bentivoglio che è un po’ il mio alter ego, senza fare paragoni irriverenti di identificazione tra Fellini e Mastroianni. Fabrizio mi assomiglia molto per tante cose. Ma se devo pensare a uno straniero che mi ha sorpreso penso a John Malkovich. Tutti mi dicevano fosse intrattabile, invece è una persona fantastica. Abbiamo trovato tanti punti in comune: volevamo entrambi fare i musicisti, tutti e due abbiamo cominciato col teatro per passare poi al cinema, e abbiamo anche più o meno la stessa età. Con lui mi son trovato veramente molto molto bene.

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Quindi se non avesse fatto il regista avrebbe fatto il musicista?

Sì, sicuramente avrei fatto il musicista. La musica per me è molto importante. Addirittura quando scrivo una sceneggiatura, o quando lavoro a una sceneggiatura mi faccio una playlist ideale e poi a volte alcune di queste canzoni si ritrovano nei film, altre volte no, ma tutte servono per me a costruire la storia. Da ragazzo mi piaceva molto il rock, suonavo, avevo un gruppo. E adesso ultimamente mi è venuto il pallino della classica e della lirica. Per esempio secondo me il direttore d’orchestra è un bellissimo lavoro.

In genere quale musica c’è nella sua playlist?

Io sono molto legato alla musica di fine anni ‘60, anni ‘70…perché mi ricorda la mia gioventù. Negli anni 70 avevo venti anni ed era quella la musica che suonavo. Però devo dire che c’è in giro dell’ottima musica anche adesso. Io ascolto principalmente la musica che deriva direttamente dal Rock’ n’ roll, cioè o il Rock’ n’ roll o la musica che in qualche modo si ispira. Per esempio ne Il Ragazzo Invisibile c’è un pezzo dei Linkin Park che mi piace, ci sono i Pearl Jam che mi piacciono molto, e poi gli Who, forse uno dei più grandi gruppi della storia del Rock, che però sono degli anni ‘70. Io sono legato a quel tipo di musica, un po’ meno alla musica hip hop o alla musica tecno perché mi piace sentire il musicista che suona, mi piace sentire le dita di una persona umana sulla chitarra, o che stringono le bacchette della batteria.

Quando non lavora cosa le piace fare?

Quando non lavoro io ho molta paura. Ho scoperto che un po’ di paura di vivere ce l’ho, e quindi mentre quando faccio un film sono io che governo tutto quanto, come il mondo che mi sta intorno e la decisione sul finale del film. Ecco, questo chiaramente nella vita non è possibile. Non c’è un copione e quindi non si può fare la regia della vita, si può fare solo l’attore. Così, io quando non lavoro spero che cominci presto un altro lavoro, perché non mi trovo bene nella realtà di tutti i giorni purtroppo.