Emil Cioran, quell’antidoto contro i veleni del secolo

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Nicola VaccaNon so se, nei suoi attraversamenti della città (Parigi), sia mai passato da boulevard Morland. Nell’autunno del 2014, al numero 8 di questo viale nei pressi della Bastille, in un piccolo appartamento di trenta metri quadri all’ultimo piano di un palazzo tipicamente parigino, ho iniziato a scrivere questo libro dopo essere stato sulla tomba dello scrittore rumeno, al cimitero di Montparnasse. Fin dall’inizio mi sono lasciato guidare dai grandi temi che attraversano la sua opera. In particolare, mi ha sempre affascinato il valore che vi è attribuito alla coscienza, intesa come consapevolezza, istintiva comprensione dell’esistente. Se non esiste uomo che, privo di essa, possa definirsi tale, per Cioran è a maggior ragione lo scrittore che in nessun caso può farne a meno. Uno scrittore che non fosse consapevole, costantemente vigile, altro non sarebbe, infatti, che un affabulatore, nel peggiore dei casi un parolaio, un imbonitore.
 
Nicola Vacca (da Lettere a Cioran, Galaad Edizioni, 2017)
 
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Lettere a Cioran (recentemente pubblicato dall’editore Galaad) è un libro nato da un viaggio ed è un viaggio esso stesso, fatto di lettere indirizzate allo scrittore rumeno e che hanno per oggetto un argomento su di lui, attraverso cui emerge una straordinaria lettura di molti aspetti dell’opera cioraniana a partire dal dubbio e dallo scetticismo, elementi portanti della vita e dell’opera di Cioran. Ce ne parli.

Non si può iniziare a scrivere di Emil Cioran se non partendo dal dubbio: da quel vasto mare di perplessità che il suo pensiero non aveva timore di affrontare. Dal peso del dubbio scaturisce del resto tutta la sua scrittura: Cioran non avrebbe scritto neppure un rigo se, nelle sue notti insonni, non fosse stato visitato dal demone dello scetticismo, che lo invitava a guardare le cose dell’esistenza senza infingimenti.

Lo scetticismo per Emil Cioran è un atto politico, un modo per essere nell’immanenza del proprio vissuto.

Senza il pensare per dubbi, perplessità e frammenti, la parola non sarebbe capace di cogliere la natura profonda delle cose, né sarebbe una lama da conficcare nella carne viva delle ferite aperte dell’essere.

lettereacioran-683x1024Cioran è davvero un pessimista irriducibile come sembra?

In apparenza Cioran è un pessimista irriducibile, uno scrittore che pensa la vita per frammenti, assediato da un invincibile vuoto di senso. Leggendolo ci accorgiamo, però, che tutto il suo sconfortante pessimismo non è altro che il pretesto – il modo, la strada, lo stile – per trasferire sulla pagina un’intelligenza lucida, armata di disarmanti sillogismi che sempre chiamano in causa la coscienza di chi legge. Guido Ceronetti nella prefazione a Squartamento sostiene che leggere Cioran è un antidoto contro le stregonerie, contro le intossicazioni del secolo. Leggerlo è avvertire la presenza di una mano tesa, afferrare una corda gettata senza timidezza, avere alla propria portata una medicina non sospetta.

Cioran ha sempre scritto anzitutto per se stesso, come una sorta di terapia…” Sono parole sue. Qual è d’altro canto il rapporto di Nicola Vacca con il demone della scrittura?

Cioran afferma che scrivere è un vizio di cui ci si può stancare. Ma quel poco che scrive vuole scriverlo in uno stato esplosivo, nella febbre o nella convulsione, in uno stupore mutato in frenesia, in un clima da regolamento di conti, in cui le invettive sostituiscono gli schiaffi e i calci. Così, in Esercizi di ammirazione, spiega il suo rapporto con il demone della scrittura.

Nella possibilità della parola il mio rapporto con il demone della scrittura non è facile. Alla stessa maniera di Cioran, anche io penso che lo scrittore non nasconde, anzi esibisce tutto il dolore che prova, tutti i brucianti dubbi che nutre, mettendo così in mostra il suo scetticismo, scaraventando sulla pagina il suo modo radicale di pensare, convinto che «tutto ciò che non è diretto è nullo».

In questo senso, della propria opera bisogna fare un’eresia e scrivere rispondendo all’inferno della propria coscienza.

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Scrive nella prefazione Mattia Luigi Pozzi: “Lettere come scavi da archeologo dell’anima, mai fredde, mai lontane, sempre singolari e universali come solo la barbarie del lirismo, per dirla con le parole del Cioran di Al culmine della disperazione, sa restituire”. Le chiedo come mai la scelta del saggio-diario per dare voce ai suoi studi quarantennali su Cioran.

Parigi, tardo autunno. Sono fermo di fronte alla tomba di Emil Cioran, al cimitero di Montparnasse. È un pellegrinaggio laico, una sosta riverente davanti all’autore prediletto, un atto di gratitudine nei confronti di colui che, forse più di ogni altro, è alla base della mia formazione umana e culturale di poeta. Sul duro marmo, sparuti bigliettini, monete rumene, una cassetta piena di lettere spedite nel corso degli anni da lettori ammaliati dalla prosa frammentaria e tagliente del pensatore morto nel 1995.  Nasce da questo momento l’idea del libro.

Come Cioran anche lei non si è mai nascosto nei suoi libri, le sue parole sono autentiche provocazioni. Quale consapevolezza sta dietro al fatto che, per riprendere Squartamento, un libro deve essere un pericolo”?

Scrivere per non ingannare, ma soprattutto chiamare le cose con il loro nome, non temendo mai di essere inattuali. Questa è la vera rivoluzione che ci si attende da uno scrittore.