Senso di vertigine è quanto si prova nel leggere la recentissima silloge di Giuseppe Vanni – edita da Fara Editore – dal titolo Paris Necker, dove sullo sfondo di una Parigi monumentale dalle architetture ispirate al trionfale ottimismo ottocentesco, il poeta affronta a colpi di versi, che a tratti si fanno pesanti come macigni, l’eterno presente di un padre in cerca di un approdo nell’oceano tumultuoso dell’esistenza.
Il Necker è un grande ospedale pediatrico di Parigi dove l’autore ha vissuto un’esperienza intensa con il proprio figlio, nato con una grave malattia genetica. Attraverso questa sofferenza nascono molte riflessioni e il domandarsi circa l’oscuro disegno divino, a patto che esista, ché: non di diavoli e città dolenti / è pieno l’inferno /ma del gelido vuoto / che s’incarna nel fio / di chi nella malattia / soffre in silenzio / l’assenza di Dio.
Nella discesa in siffatto inferno terreno, il poeta incontra altre anime, ciascuna con la propria storia da narrare, l’incerto viaggio / di un figlio / che ora dorme / in un bâtiment / di quest’ospedale/.
E vi è un tempo sospeso, a far compagnia all’animo dell’autore il quale “per tutta l’opera – come sottolinea in prefazione Claudia Rubbini – si dibatte tra le antinomie della ragione, rassegnazione e rabbia, disperazione e speranza, in un eterno presente fatto di ambienti ospedalieri asettici ed il pensiero /forse mendace / che in futuro arrivi un’amnistia”.
Una scrittura composta e diretta, quella di questa silloge (che chiude la trilogia iniziata con “Al mare” e proseguita con “Horror vacui”), che al fin di tutto si fa portatrice di uno straordinario messaggio di coraggio, forza e amore immensi; una scrittura, soprattutto, terribilmente umana, in grado anche di regalare autentici attimi di meraviglia: Eppure avverti il filo / che ci lega / a questo cielo, / se a bruciapelo / mi chiedi / quando non c’ero, / dov’ero?