«Illusoriamente libero, ma in realtà fortemente e consapevolmente influenzato dalla passione per Frank Zappa, Aaron Copland e la cosiddetta “scuola di Canterbury”». Massimo Giuntoli definisce così il suo singolare linguaggio musicale, contraddistinto da un disinibito andirivieni tra l’accademia e una rosa alquanto eterogenea di altri idiomi, con l’uso ricorrente, spesso reinventato, di tecnologie elettroniche della più varia specie. Compositore, performer, creativo urbano e artista multimediale, dopo l’appuntamento di domenica 3 settembre a San Donà di Piave per il Fiume Festival, sarà da giovedì 7 a sabato 9 al Festivaletteratura di Mantova con “Pie Glue! – Singing The Beat Generation”. «L’idea è stata quella di cimentarmi nell’impresa – durata almeno cinque anni – di musicare nella versione originale inglese una corposa selezione di poesie di autori quali Allen Ginsberg Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, Diane Di Prima, Norman Mailer, Gregory Corso e altri poeti della Beat Generation meno universalmente conosciuti» spiega. I testi scelti sono stati trasformati in canzoni dalla struttura articolata, interpretate insieme alla vibrafonista Clara Zucchetti. Nato a Milano, Giuntoli racconta che il suo arrivo a casa a pochi giorni di vita è stato accompagnato dalle note del quinto concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven. «A sette anni ha poi avuto inizio lo studio del pianoforte, e dall’adolescenza in poi le sane “distrazioni” nei confronti di linguaggi “non accademici”». Da allora non ha mai smesso di muoversi in molteplici direzioni: ha pubblicato vari album, tra cui “Diabolik e i sette nani” e “Giraffe”, ricercatissimi nel mercato del collezionismo, e, nel corso degli anni, si è impegnato in numerosi progetti che inglobano azione scenica e installazioni multimediali site specific, diventando uno degli artisti italiani più eclettici e multiformi. Ripercorrendo la sua carriera, dice che non c’è stata una vera e propria svolta, ma occasioni preziose. «Una su tutte la serie di son-et-lumière commissionatemi per quattro anni consecutivi dall’Assessorato alla Cultura della Regione Valle d’Aosta per il Teatro Romano di Aosta. Poi l’incontro con lo scrittore inglese Jonathan Coe, che ha portato alla partecipazione al Festival Collisioni con un programma di sue composizioni che ho avuto l’onore di arrangiare, e che saranno a breve oggetto di pubblicazione discografica. Non meno importante l’esperienza con l’Artchipel Orchestra di Ferdinando Faraò, contesto nel quale mi sono sorprendentemente ritrovato fianco a fianco con alcuni degli “eroi” riconducibili alle aree canterburiane, quali Phil Miller, Keith e Julie Tippett e Chris Cutler». Negli ultimi quattro anni si è concentrato su numerosi progetti tematici, pensati innanzitutto nella loro dimensione live. Dei prossimi due, che debutteranno a marzo 2018, anticipa: «“One Song” è costruito su uno zapping di dialoghi cinematografici che ricrea una sorta di cut-up narrativo, mentre “F.I.T. – Found In Translation” scioglie la briglia a destabilizzanti testi non-sense in un accostamento di idiomi linguistici provenienti da ogni latitudine del pianeta, a significare una profonda avversione per qualsivoglia concetto di confine; un tema tristemente tornato di enorme attualità e di non più ignorabile urgenza».
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