La prima volta che Mike D’Antoni arrivò in Italia a stento sapeva dove fosse sulla cartina geografica. Era il 1977 e il ragazzone, 1.90 d’altezza, della Virginia era convinto di fare un po’ di vacanza e tornare alla sua NBA. Bastò un’amichevole estiva e un po’ di sana furbizia italica per fargli firmare un impegno biennale con l’Olimpia Milano.
Era una Milano diversa da quella attuale. Si avviava a entrare nel decennio che brillantemente fu riassunto in uno slogan del 1985: la Milano da bere. Una città positiva ed efficiente. Con il Milan e l’Inter lontani dalle vittorie dell’era berlusconiana e dal triplete morattiano, c’era una sola faccia sportiva che traduceva in risultati questo slogan: Mike D’Antoni e la sua Olimpia Milano.
Bianco, con i baffi che si alternavano alla barba da guru, non particolarmente veloce o atletico. Sembrava più un architetto rampante a spasso per le vie di Brera o lungo i navigli e invece una volta indossati canotta e pantaloncini si trasformava nel leader feroce di una squadra che ha avuto pochi eguali nella storia del basket italiano.
Visione di gioco fuori dal comune, mani da pianista in grado di muoversi alla velocità del pensiero. Lo chiamavano Arsenio Lupin perché nella difesa 1 3 1 di Dan Peterson era l’uomo di punta. Il prescelto per togliere la palla agli avversari. Quando alzava la mano destra facendo il segno del tre, all’italiana non all’americana, il terrore stringeva il cuore dei rivali. Quintali di palle perse e tiri affrettati costruirono il mito della difesa insuperabile.
Dall’altro lato del campo c’era la L, il secondo dei segni del leader, un blocco alto con il lungo, signori come Dino Meneghin e Bob McAdoo, che tutti conoscevano ma nessuno riusciva a fermare. Difficile spiegare Mike D’Antoni in poche parole. Difficile capire l’anima di quella squadra che in campo era dura come granito e fuori si scioglieva nei sorrisi delle cene al Torchietto.
Si muoveva per le strade di Milano, come in campo, con leggerezza. Al punto che fu naturale trovarci la compagna di una vita. La signora Laurel, all’epoca modella dalla statuaria bellezza, che condivide con Mike la vita da ben trentuno anni. Dal campo si spostò in panchina, sempre a Milano, dove sviluppò la tattica che l’ha portato a vincere per due volte il titolo di coach of the year della NBA.
Seven Seconds or Less, una filosofia di gioco unica. Come non associarla allo stile giovane e frizzante della Milano da bere che Mike D’Antoni disegnò sul campo da basket.