Sesso, ricatti, suicidi: il lato oscuro del web

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Come ogni rivoluzione anche quella digitale miete le sue vittime. Undici anni fa esplodeva l’era di Youtube, promessa di rivoluzione digitale. Deflagrazione atomica di voyeurismo, grande democratizzazione dei contenuti – non più a discrezione solo dei “canali” ufficiali -, giornalismo dei cittadini, viralità – forma moderna di vitalità -, presa diretta, senza pause, senza tregua. Il mondo metteva la quinta, aumentando vorticosamente la velocità del reale, mentre si chiudeva, credendo di aprirsi, nelle riserve dei social. Tutto è ora; sette, otto click e si è online, connessi col mondo, col fiato corto nella corsa all’esposizione, come una conferma della propria esistenza: video ergo sum.  Nel grande calderone virtuale, ostensorio dei pensieri, ostello delle responsabilità e delle coscienze individuali e sociali, parcheggiate su un sito internet, ci finisce tutto e tutto si mescola; l’illusione della partecipazione globale ai tempi, la voglia di mostrarsi e di allevare apparenze, l’esigenza di crearsi, e in fretta, un’identità pubblicamente riconoscibile, di divenire tangibili, esistendo in un’azione da riprendere, da ricondividere, la fame di fama, la spinta alla leggerezza, l’inebriante senso di essere fuori controllo, di dettare i ritmi, i tempi, i linguaggi come provocazione ad una rivoluzione fittizia che non riuscirà mai a smuovere alcunché. Nel grande calderone la regola è che non ci sono regole, ma molte vittime. Benvenuti nell’infernet. 

Ricatti, vendette e fragilità: il web uccide

downloadEtà, esperienze, errori. Tiziana, Rehtaeh, una madre di Castelfranco Veneto. Cos’hanno in comune? La tragica fine che le ha strappate da questa terra. Il suicidio per un errore finito nelle mani sbagliate e poi divenuto virale sul web. Provare a cambiare nome, casa e vita. A cancellare, a fregarsene. La depressione, il senso di impotenza. Ciò che è stato, è stato. I social, paladini della rivoluzione del progresso, campioni delle donazioni, cugini del terzo mondo, amici delle multinazionali, figliastri del menefreghismo, non l’hanno aiutata, diffondendo: solo la causa verso Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google e Youtube è servita, amaro contentino, ottenendo pochi giorni fa la rimozione di ogni contenuto che facesse riferimento a quelle immagini. Ma non è bastato ad evitare il peggio. Tiziana Cantone, a 31 anni, si è impiccata con un foulard. Stessa tragica sorte per Rehtaeh Parsons, toltasi la vita nel 2013, appena quindicenne, a causa di alcune foto, diffuse su internet che la ritraevano mentre, ubriaca, faceva sesso con un ragazzo di 20 anni. Troppo il dolore, la naturale incoscienza. Ma nel meccanismo infernale possono cadere ragazze come Rehtaeh e anche donne più esperte – come riporta La Stampa -. Il 3 gennaio dello scorso anno una quarantenne di Castelfranco Veneto, madre di due figli, si è tolta la vita per la vergogna. Un contatto con un trentacinquenne napoletano, che, spacciandosi per un giovane aitante e inviandole foto non sue, era riuscito a trascinarla in una relazione virtuale. Poi le foto della donna in biancheria intime e il ricatto, la minaccia di metterle in rete se non avesse ottenuto la sua contropartita. Il rifiuto di lei e la condivisione degli scatti sul web. La paura che potesse essere riconosciuta, la vergogna, il suicidio.

Revenge porn e cyberbullismo: schavi della rete

Cyberstupro (barbarazanninoni.it)

In Inghilterra costituisce reato: fino a due anni di carcere, con estensione della pena anche per chi diffonde scatti e video attraverso social, sms o email. In Italia è possibile difendersi appellandosi all’articolo 595 del Codice Penale, che disciplina la diffamazione nel caso in cui l’immagine o i contenuti che la accompagnano (commenti, didascalie) sono offensivi “tali da arrecare pregiudizio all’onore, alla reputazione, al decoro della persona medesima”, con la giustificazione di un trattamento sanzionatorio più severoper via della potenzialità che ha web di diffondere immediatamente e su larga scala i contenuti”. Negli States, per contrastarlo, è nato un movimento “End revenge porn”. Il revenge porn, la vendetta porno, o dell’ex, è causa di suicidio, di depressione ed ansia. Testimonianza del coraggio dei codardi. ““Il porno non consensuale (o revenge porn) è una forma di abuso sessuale che implica la diffusione e la pubblicazione di foto o video di persone nude, in atteggiamenti intimi o sessualmente espliciti senza il loro consenso”, così si legge nel manifesto del movimento ERP. Bieco ricatto, vendetta, minaccia. Privacy distrutta, violenza brutale che colpisce indistintamente dal sesso. Così come il cyberbullismo. Carolina Picchio, a soli 14 anni si è lanciata dalla finestra della casa del padre al terzo piano: era vittima del bullismo che viaggia silenzioso nel web, nei bassifondi della rete e dell’umana quotidianità, nelle chat di un social network. Ad una festa Carolina si sente male, corre in bagno, barcolla; sei ragazzi dai 13 ai 15 anni, la seguono, la circondano, la molestano e la filmano. Il video finisce in Rete, su Facebook. Dopo qualche tempo il suicidio (Corsera). Cyberbullismo, un attacco continuo, ripetuto, offensivo e sistematico attuato mediante la rete che colpisce troppo spesso chi è incapace di difendersi, come i minori, insinuandosi nella psicologia individuale subdolamente. Un tragico fenomeno che interessa il 7-8% della popolazione scolastica – come indica orizzontescuola.it -, e nonostante il bullismo incida per il 15%, colpisce più a fondo perché presenta un rischio più elevato di suicidi: il 50% di chi ammette di averlo subito dice di averci pensato, l’11% di averlo tentato, il 70% di aver fatto autolesionismo e una percentuale analoga afferma di essere entrata in depressione.

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Esempi, porno e rock ‘n roll

Assistere ai selfie on the water, parafrasando i Deep Purple, di qualche celebrità su un social, agli eccessi di Lady Gaga o di Miley Cirus sul web o tenere presente che ogni anno i gestori di siti porno incassano fino a 3 miliardi di dollari di soli inserzioni pubblicitarie, che l’Italia è al quarto posto per visitatori del sito hard YouPorn (2012), dopo Statisexy-cam-thumb-jpg-e80b37d1809cf9c969331a3406608b1b Uniti, Germania e Francia e che oltre 4,04 Gb – circa 10.380 file divisi in 507 cartelle – venivano destinati a “La Bibbia 3.0” nella rete nazionale – ovvero un enorme archivio di scatti e video pedo-pornografici in cui erano contenute migliaia di minorenni, con tanto di nome, cognome e anno di nascita -, offre una testimonianza pressoché drammatica di come la rivoluzione del web non sia solamente il meritato compimento di un progresso migliorativo. Tra una connessione e l’altra, la creazione di un esempio moralmente e socialmente positivo, di un punto di riferimento spendibile per i giovani, ma non solo, diventa sempre più difficile, proprio in un’epoca di affermazione del narcisismo digitale e di una coscienza virtuale sempre più in grado di intaccare l’identità reale. Il web è diventato strumento per esprimere virtù tanto quanto un immondezzaio a cielo aperto, correndo nella stessa direzione della società reale: il ricco borgo si mischia ai bassifondi, tanto quanto le stanze ipertecnologiche, bianche, asettiche della Google o le raccolte fondi internazionali promosse a suon di bonifici online si fondono con il Deep Web, laddove si trova di tutto, si commerciano armi e si diffonde la pedo-pornografia. La sfida moderna, dunque, è quella di educare al web. Un concerto di prevenzione che parta dalle famiglie, capaci di stabilire un rapporto comunicativo con i propri figli, sincero e aperto, e giunga fino alle istituzioni, che devono muoversi nella direzione della “certezza”: la certezza della formazione – in questo caso occorre citare il progetto educativo per le scuole, “La Rete siamo noi”, di Lorella Zanardo; un’iniziativa con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza degli studenti nei confronti della Rete, in tre ambiti differenti: le risorse che il Web mette a disposizione degli utenti per dialogare e confrontarsi: dai principali social network (Facebook, Twitter, YouTube) ai motori di ricerca; l’utilizzo della Rete come luogo di costruzione della cittadinanza attiva: dai flash mob ai social network dedicati all’impegno civile, dal mail bombing al crowdfunding; la conoscenza e la creatività acquisibili attraverso la Rete: dalla comunicazione alla creazione artistica e al giornalismo partecipativo – e quella della pena. Fuori i nativi (digitali) dalle riserve (social). Questo si che sarebbe rock.