(Da Alessandro Nardone, inviato negli USA)
A me Donald Trump non ha mai entusiasmato: troppo Nixon e troppo poco Reagan o Coolidge, per i miei gusti. Politicamente parlando, s’intende. Solo dopo, vengono le questioni relative alla sua personalità decisamente e volutamente sopra le righe, il gossip e tutto il resto, di cui, onestamente, poco m’importa.
Lo dico a poche ore di distanza dalla sua storica vittoria, che ho vissuto in prima persona dal quartier generale della sua rivale al Javits Center di New York e, soprattutto, dopo averlo seguito sin dalla sua discesa in campo alle primarie repubblicane e recandomi a Cleveland per la Convention del Grand Old Party che gli conferì quella stessa nomination per la quale anch’io ho “corso” con la mia candidatura fake sotto le mentite spoglie di Alex Anderson.
Tutto questo ha fatto sì che, nel corso dell’ultimo anno, potessi confrontarmi con un numero indefinito di americani di ogni credo, colore e ceto sociale. Alcuni li ho intervistati, altri li ho conosciuti in circostanze informali, e altri ancora – oltre 28.000 – attraverso il profilo Twitter di Alex che, fino a quando non decisi di uscire allo scoperto, veniva percepito come un politico vero che per di più, a differenza degli altri, rispondeva (e risponde tutt’ora) a chiunque gli scrivesse. Molti di loro sono repubblicani e nella fattispecie sostenitori di Trump, i deplorables, come amano definirsi da quando Hillary commise una delle sue parecchie gaffe apostrofandoli così.
Credo dunque di poter dire di aver toccato con mano il popolo che il neo Presidente americano è riuscito a costruire attorno a sé, percependo in maniera inequivocabile l’avversione che nutrono nei confronti del cosiddetto establishment, l’apparato che nel maldestro tentativo di delegittimarlo lo ha invece legittimato conferendogli i galloni di alternativa. In primis ai repubblicani, dilaniati dai personalismi e incapaci di esprimere un progetto, prim’ancora che una candidatura credibile. Poi a Hillary Clinton, al tempo stesso il peggior candidato per i democratici e il miglior avversario per i repubblicani.
The Donald ha visto il varco e si è giocato il tutto per tutto infilandocisi e facendone, giorno dopo giorno, provocazione dopo provocazione, l’autostrada che lo ha portato dritto alla Casa Bianca.
Gli endorsement, l’avversità pressoché totale dei media mainstream, i sondaggi strampalati. Tutto inutile, perché tutto troppo distante dalla realtà di persone in carne e ossa che, con i paroloni e gli appelli delle star, non ci mangiano. Piaccia o meno, in questo caso vale lo stesso principio della “livella” di Totò: nella cabina elettorale, così come di fronte alla morte, non esiste miliardario o “poverocristo”, siamo tutti uguali. Una testa un voto.
La storica vittoria di Donald Trump è la pillola rossa che hanno dovuto ingoiare tutti quelli che ritenevano che Hillary Rodham Clinton dovesse vincere per forza, sbalzandoli fuori dal loro Matrix e catapultandoli nel mondo reale. Un’impresa eccezionale, non c’è dubbio, a cui però ora dovranno seguire fatti eccezionali. Allora sì, che il masterpiece di Trump sarà compiuto.