La mente ne anticipa il completamento e va al World Trade Center, simbolo entrato drammaticamente nella coscienza collettiva della distruzione delle immagini. Ma, anche se alla fine ci ritorneremo, non è questo di cui vorrei parlare ora. Il pensiero corre piuttosto a quell’architettura verticale profana che ascende ai cieli e nello stesso tempo è radicata sulla terra.
Nell’immaginario di Walter Trecchi luoghi metropolitani e “sistemi”naturali danno vita a un crossover di architettura e natura. Sono luoghi che non esistono ma che potrebbero esistere perché, come per tutti i grandi, essi sono in anticipo sul tempo di chi li pensa: ora non esistono più spazi in orizzontale, tutto si sviluppa in verticale, anche il verde.
Noi, ora, nei grandi spazi cosmopoliti delle città all’avanguardia, ci guardiamo attorno e assistiamo al processo di trasfigurazione in fieri delle industriose metropoli nella direzione di un nuovo dialogo con gli elementi naturali. Certo, sono lontani i tempi dell’art nouveau (vedi Milano), eppure le “nostre” città sono cresciute rispetto a quel passato, di cui conserviamo le fotografie mentali: assistiamo al loro sviluppo come quando registriamo i cambiamenti di un organismo vivente nel corso del tempo (“Ascolto il tuo cuore, città”, scriveva il grande Alberto Savinio, dedicando il libro a Milano).
Il percorso pittorico di Walter Trecchi, di cui WT è un compendio visuale che ne illustra la “storia”, in cui i passaggi da un’ “epoca” all’altra sono legati come le maglie di una catena, inizia dagli spazi industriali dismessi, luoghi cha hanno affascinato l’artista al punto di entrarvi fisicamente per “viverli”, ascoltando i rumori della città là fuori e catturando la luce che dalle finestre filtrava in contrasto con l’oscurità degli interni. Da lì il passaggio obbligato e naturale ai cantieri (si pensi all’opera Orizzonti temporanei VI, effigie di un “organismo” in sala operatoria) e quindi al divenire della città/organismo e al suo rapporto con la natura (esempio: Antropico naturale VI, dialogo fra opposizioni in armonia). Un percorso sequenziali per autentiche visioni (non: vedute) urbane, come consequenziale è in Trecchi il rapporto architettura/natura iniziato con la serie degli Equilibri fra spazi vuoti e spazi pieni, elementi urbani e naturali, colore e non colore: un’epitome di questa serie è l’opera Equilibrio III, divisa a metà dal rosso vermiglio che fa da contraltare alla sezione laterale opposta dominata da toni quasi marmorei (soluzione che ritroviamo anche in Equilibrio XI, dove la traccia della verticalità è data dalla natura e non più dall’architettura).
Le città di Trecchi, Milano, Londra, Amsterdam, in realtà non hanno importanza in quanto Milano, Londra e Amsterdam, ma in quanto città in sé, indipendenti da noi che le guardiamo: possiamo dire che Walter Trecchi ne coglie l’“urbanità” come Morandi, dipingendo per tutta la vita la stessa bottiglia, ne colse la “bottiglità”. In pratica, è la ricerca dell’intima essenza del fenomeno città, al di là delle sue forme mutevoli: Linee di fuga XX e Linee di fuga XXXII rappresentano questa “vertigine”, verticalità e profondità profane e universali. E non importa dove siamo, non importa quali siano queste città.
Ma nell’immaginario di Walter Trecchi la città che sale si fonde in afflato armonioso con il corpo silvano. Il risultato è dato da concrezioni arboree che, facendo riandare il pensiero agli avviluppi nodosi delle sperimentazioni art nouveau, si edificano come per partenogenesi lungo un’architettura verticale, le vette della città, le torri profane che grattano il cielo.
La natura ama nascondersi, diceva Eraclito. Ma qui essa si rovescia nell’opposto del nascondimento, ovverossia in quello che, sempre i Greci, chiamavano la verità: ἀλήθεια (“alètheia”), vale a dire, appunto, il “non nascondimento”, lo “svelamento”: nell’opera di Trecchi la Natura ama rivelarsi anziché nascondersi, attraverso l’altro-da-sé: la tecnica, cioè l’architettura, cioè la cultura.
Nel crossover rappresentato da WT i due termini della diade natura/cultura, da sempre considerati in antitesi, si coordinino quindi nell’armonia totale, sia di forma che di contenuto: rimando esplicativo in tal senso possono essere opere come Archi-nature VIII e Archi-nature IX, dove la natura cresce letteralmente su tutto il corpo degli edifici.
Mi torna alla mente, qui, un’immagine, mirabilmente delineata dallo scrittore francese Michel Houellebecq nella parte conclusiva del suo romanzo “La carta e il territorio”, in cui il protagonista, un artista, dedica gli ultimi dieci anni della propria vita alla ripresa di vegetali, per poi tornare alla raffigurazione di oggetti industriali, firmando da quel momento il proprio testamento artistico con una serie di lavori in cui le immagini scompaiono del tutto:
“[…] E anche il senso di desolazione che ci pervade man mano che le rappresentazioni degli esseri umani che avevano accompagnato Jed Martin nel corso della sua vita terrena si disgregano per effetto delle intemperie, e vanno in pezzi, quasi a diventare negli ultimi video il simbolo dell’annientamento generalizzato della specie umana. Esse sprofondano, sembrano dibattersi un attimo prima di venire soffocate dagli strati sovrapposti di piante. Poi tutto si placa, non ci sono altro che erbe agitate dal vento. Il trionfo della vegetazione è totale. “[…] gli oggetti industriali sembrano affondare, sommersi progressivamente dalla proliferazione degli strati vegetali. Talvolta danno l’impressione di dibattersi, di tentare di tornare alla superficie; poi sono travolti da un’onda di erba o di foglie, ripiombano in seno al magma vegetale, nello stesso momento in cui la loro superficie si disgrega.
(Michel Houellebecq, “La carta e il territorio”, Bompiani, 2010, pp. 357 e 360)
Nella produzione d’arte firmata WT la natura germoglia come massive concrezioni arboree sulle architetture edificate dall’ingegno umano in una sintesi di suprema perfezione (Archi-nature VI), mentre altrove svetta, come un afflato universale, solitaria su un fondo, talora saturo come un cielo di nebbia (Naturae III), talaltra fitto come un derma solcato di concrezioni materiche (Antropico naturale XIX): una conclusione sicuramente lontana dal nichilismo del personaggio del romanzo di Houellebecq, dove la vegetazione cresce fino a inghiottire ogni traccia umana in una sorta di ecatombe della civiltà e quindi della cultura, ma sicuramente espressione di una weltanschauung alternativa e pure fedele (drammaticamente o felicemente, dipende dai punti di vista) alla kultur und zivilisation del tempo presente.
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