A tu per tu con Ivano Sossella

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Cretino o no (Duchamp dixit), l’artista è uno che sa far dei trucchi, come esporre una bacinella d’acqua  mossa da un ventilatore, inquadrare il tutto in una cornice e convincerci che si tratta di un’operazione artistica: l’arte non è credibile ma alla fine ci crediamo, come allo spettacolo di un prestidigitatore. Rimando esplicativo non inutile: alla fine di questa intervista l’intervistato dichiara urbi et orbi che, in un’altra vita, anziché Ivano Sossella usw sarebbe stato Jean Eugène Robert-Houdin.

Nato a Genova nel 1963 e attualmente operante a Milano, Ivano Sossella usw ha fatto mostre in Italia e all’estero (APERTO 93 – Biennale di Venezia a cura1376195_10202220092654509_812423242_n-620x349 di Achille Bonito Oliva, Documenta IX a Kassel, Goethe Museum di Weimar curata da Pierluigi Tazzi, Jean Hoet e Dennis Zazharoupulos, Accademia Carrara di Bergamo curata da Angela Vettese, Museo Luigi Pecci di Prato a cura di Elio Grazioli e Amnon Barzel, per non parlare delle mostre in diverse gallerie private) e il suo approccio all’arte contemporanea è sempre stato filosofico ma non concettuale e men che meno concettoso: per sintetizzare brutalmente la sua produzione d’arte, potremmo dire che essa consiste nel render vero il reale, cosa che è intrinsecamente connessa ad ogni forma dell’ingegno umano, ma che nel caso degli artisti riesce a meraviglia.

Post scriptum: la succitata bacinella piena d’acqua  mossa dall’azione di un ventilatore messa in cornice è un’opera di qualche tempo fa di Ivano Sossella usw.

Io non capisco i tuoi quadri. Tele tirate fino allo spasimo: me le (s)pieghi?

La risposta sincera è che sono lavori che realizzo, accanto ad altri e ogni tanto mi capita di rivederli e trovarne qualcuno accettabile. Se aggiungo qualche grammo di pensiero posso ancora dire che è il lavoro che tutti gli artisti fanno: dar luogo a qualcosa che possa abitare il mondo pur senza condividerne la realtà. Tirare una tela sulla quale si è disegnato o dipinto è un gesto di avvicinamento: anche un solo quadrato, se tirato via da se stesso, smarrito dalla retina che non lo riconosce più, comincia a darsi per quello che è. Il lavoro di sempre e di ogni artista: offrire la pietrosità della pietra, la giallità del giallo a costo di smarrire la pietra e il giallo. Ma è uno smarrimento che accoglie solo il reale: la dimensione dell’arte è il vero poetico dove il giallo si ritrova giallo anche se il reale magari lo riconosce per azzurro.

Jilles Deleuze scrisse La piega (secondo lui la piega è sempre esistita, nell’arte)

Capisco che a quindici, diciotto, vent’anni leggere Deleuze possa fare l’effetto di un Mohito. E’ stato cosi anche per me. Ma ora più-che-cresciuti come siamo, la piega, lo sappiamo, è in realtà un ponticello che collega, con forza o precarietà, il reale al vero. Reale è il quarantenne che racconta ad un amico d’ essere in crisi e smarrito così a mezza strada della sua vita. Il vero però risuona in “nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita”.  Un ponticello unisce e distanzia reale dal vero ed un artista si affaccenda nella sua costante costruzione. Siamo, letteralmente, dei pontefici.

La piega si (dis)piega su una superficie: chi domina il campo (dell’arte)?

Il campo dell’ arte è dominato  dagli artisti. L’indotto esiste e talvolta assume ruoli padronali. Ce ne si fa una ragione…

Ma se uno/a che in arte non avesse bisogno di dimostrare nulla (e quindi togliamo critici, curatori, galleristi e lasciamo l’unica cosa che conta, il pubblico) ti chiedesse se i tuoi quadri sono astratti o figurativi, tu cosa gli risponderesti?

Con un abbraccio, gli risponderei. E poi subito a bere qualcosa per spegnere la sua sete di conoscenza. Magari prima di lasciarlo sul primo taxi steso e stordito dai Martini glielo ricorderei, che di astratto non c’è nulla. Nemmeno il pensiero. Figuriamoci l’arte.

Bon, Francesco Bonami ha appena detto che i curatori non servono a un cazzo: Ivano, tu e Massimo Kaufmann, artista come te, avete curato una mostra intitolata Cazziefighe (C&F): vuoi parlarcene?

Massimo e io abbiamo detto un giorno: non esiste un posto dove andare a Milano a far qualcosa oltre quel che già si deve fare. Il mio e il suo studio non sono abbastanza grandi per ospitare un centinaio di artisti. Abbiamo organizzato questa mostra perché era la pratica più economica ed agevole per incontrare amici, fare parlare un po’ di noi e perché la sottile particolarità che ha suscitato questa iniziativa ha coinciso con la nostra spontaneità. CAZZIEFIGHE: intitolare una mostra Paesaggi Astrali o Dinamiche Del Segno ci fa piangere e ne abbiamo fatte abbastanza cosi.

Se tu fossi un critico, da chi vorresti essere dipinto/fotografato/disegnato/scolpito?

La testa dice Kosuth o Darboven: credo che il cuore del lavoro di un artista sia anche accogliere la bellezza e la gabbia della commitenza e devi ammette che chiedere un ritratto alla Darboven o a Buren sarebbe un esercizio imperdibile. Il cuore dice però Gauguin.

Perché non esiste più nessuna corrente artistica col suo bravo manifesto? Tutta colpa del liberismo?

Perché siamo tutti epigoni. Tanto più si adotta il maquillage dell’innovazione e più si affonda nell’eco di qualcosa di altro visto e stravisto. Se proprio prende al cuore la nostalgia di un ismo, di un manifesto di intenti e poetica, ci si rivolga direttamene alle opere che manifestano abbastanza da loro stesse. Il valore di un opera d’arte è il lavoro a cui rimanda: ad un artista questo basta e avanza come manifesto.

Come sta la pittura nella provincia italiana? Io rimpiango Guttuso e Scipione…

Sta bene come tutti a casa e cosi mi auguro di Lei. La mamma mi ha insegnato a rispondere sempre cosi. E’ duro riuscire a rimpiangere qualcuno se poi si tratta del compagno-camerata (in termini artistici) Guttuso no. Detto, sia chiaro, con rispetto e blah blah. Gli artisti del passato valgono quanto quelli di oggi e di domani. Lavoro da un bel po’ e casomai mi muove ogni tanto una sottile nostalgia, ma nei confronti di alcuni galleristi capaci di grandi avventure e complicità con i quali avuto la fortuna gioiosa di lavorare.

Hai degli idoli? O preferisci guardare le opere degli altri artisti? 

No, nessun vitello d’oro, anche perché stando all’interno di un ambiente e praticandolo tutto si fa presto squisitamente umano. Guardo di certo le opere di altri artisti, mi attira la forza dello stile e ho adesione cameratesca per quanti hanno chiaro che lo stile non è applicare una sorta di filtro di Photoshop al proprio lavoro per caratterizzarlo e renderlo riconoscibile. Lo stile è il contrario, affronta e tenta la perdita di riconoscibilità.

In arte, meglio la sfrontatezza dei giovani (leggi: trentaquarantenni) o l’opera già collaudata dei “vecchi”? Valutazioni economiche a parte, naturalmente

La sfrontatezza la trovo a dosi omeopatiche a dire il vero anche tra i giovani. Il vecchio è meglio del nuovo quasi in tutto, anche se forse dà meno gioia apparente. Se si ha modo e o fortuna di poter lavorare per molti anni, si sa ben presto che nemmeno a duecento anni avrai un lavoro, come dici tu, più collaudato. Certo si acquisisce mestiere e questo dà qualche conforto.

Se non fossi stato un artista, cosa saresti stato?

Jean Eugène Robert-Houdin.