Non puoi dire poesia se non dici Guido Gozzano

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Divismo lirico. Il lampo aveva la faccia di un divo hollywoodiano, con Nietzsche nella tasca delle fatidiche camicie e D’Annunzio appeso in poster. Tutti sanno quanto è bravo Eugenio Montale, tutti conoscono Giuseppe Ungaretti e sono pronti a spendere un omaggio per Mario Luzi. Tutti quelli che conoscono davvero la poesia italiana, però, concordano che c’è un “prima di Guido Gozzano” e un poi.

Tutti i repertori antologici del secolo scorso (ad esempio, la canonica Antologia della poesia italiana Einaudi dettata da Cesare Segre e da Carlo Ossola) hanno come punto di partenza e di svolta il dandy Gozzano, lo Huysmans di casa nostra, quello che «vive tra il Tutto e il Niente/ questa cosa vivente/ detta guido gozzano». Non tanto per faccende cronologiche, una scemenza del caso, d’altronde quando scrive Gozzano c’è ancora il Pascoli, che ha preso a tromboneggiare, e D’Annunzio, che più che versi sparge vaticini e voli viennesi. In effetti, Gozzano, piemontese figlio di buona famiglia (il nonno era intimo di Massimo D’Azeglio), liceale disastroso, morì 100 anni fa, a 32 anni, appena quattro anni dopo il Pascoli; D’Annunzio gli sopravvisse per altri 22 anni. Gozzano, a differenza di questi titani, è altro: serra la saracinesca dell’Ottocento, si fa promotore di tutti i moti poetici che lo seguiranno (lo capì bene Edoardo Sanguineti, grande fan di guidogozzano), «non discepolo di alcuna scuola o di alcun Maestro» (così l’Antologia einaudiana). Per capirci: i futuristi lasciano strascichi lirici irrilevanti ai fini del godimento estetico, Cardarelli e Palazzeschi sono simpatici eccentrici, Dino Campana fa da sé, Montale, il più bravo di tutto, usava Gozzano come un farmaco contro i rigurgiti di dannunzianesimo.

Si vive, si muore. A leggerlo oggi, Guido Gozzano fa impressione. Autore, in sostanza, di due raccolte poetiche, La via del rifugio (1907) e I colloqui(1911), soprattutto in quest’ultima (quella della leggendaria Signorina Felicita e dell’Amica di Nonna Speranza), Gozzano impone i temi cardinali della poesia contemporanea: un tono narrativo sostenuto da versi ampi, che superano l’imperio dell’endecasillabo, una sorta di tragica leggerezza (sintetizzata da versi-slogan come «Non vivo. Solo, gelido, in disparte,// sorrido e guardo vivere me stesso»), la capacità di ingurgitare liricamente ogni cosa, il tono arzigogolato e il gergo popolare, perché la poesia è onnivora. «Gozzano ce l’ha fatta.

Ha espresso la sua ricerca, ha creato un mondo, ha compiuto pienamente la sua vocazione poetica», scrive Gianfranco Lauretano, poeta, che s’inerpica nelle storie di altri poeti (per la Bur ha raccontato Cesare Pavese e Clemente Rebora, per Il Saggiatore ha tradotto, ottimamente, Osip Mandel’stam), sintonizzato sulla potenza (scolasticamente deprezzata) di Gozzano nel suo testo (piano, semplice, da adottare nei licei) Il crepuscolo dell’incanto, abbinato, in cofanetto, alla riproduzione delle due raccolte di Gozzano, edite da Raffaelli (Rimini 2016, 2 vol., euro 25). Una scelta editoriale controcorrente (Raffaelli ha in catalogo anche l’opera, istrionica e incompiuta, di Guido, Farfalle. Epistole entomologiche, 2014), perché in effetti non è che l’editoria nostra si sia messa a onorare degnamente il centenario dalla scomparsa (per la precisione, l’infausto evento accade il 9 agosto 1916), né sono sorti movimenti celebrativi. D’altronde, Gozzano, straordinario profeta, aveva già previsto tutto, nel selfie lirico Totò Merùmeni: l’artista «opra in disparte, sorride, e meglio aspetta./ E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà».

Della vita conta la nascita e la morte. In mezzo, è il valzer del caos.