Addio André Courrèges, stilista rivoluzionario

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I creativi, si sa, sono tutti un po’ folli. Lo era anche André Courrèges, scomparso nella sua casa di Neuilly-sur-Seine, alle porte di Parigi, all’età di 92 anni. È come se, senza quel pizzico di pazzia, che si traduce in genialità, non fosse possibile muovere le fila delle tappe fondamentali della costante rivoluzione artistica. In questo senso, Courregès un rivoluzionario lo è stato davvero, sfacciato e insolente al punto da riuscire a tenersi in equilibrio, sempre, sul sottile, sottilissimo confine che ora separa, ora fonde, genio e follia.

Lo stilista, che negli anni ’90 si era ritirato per dedicarsi all’arte lasciando le redini della sua maison al gruppo giapponese Itokin –rilevata nel 2011 dai due manager Jacques Bungert e Frédéric Torloting, e guidata dal duo di designer di Coperni Femme, Sébastien Meyer e Arnaud Vaillant-, ha combattuto per 30 anni con una malattia spietata, il morbo di Parkinson, nello stesso modo in cui per tutta la sua carriera ha sfidato prima le tradizioni, poi il comune senso estetico, in barba alle critiche di chi –Coco Chanel compresa- vedeva nella sua creatività una guerra al più diretto modo di intendere la femminilità.

Il fatto è che con la sua scomparsa, il settore ha perso un pezzo da novanta, caro forse più alle generazioni passate che all’attuale schiera di adoratori del fashion system. Si tratta però di un’imperdonabile pecca, perché la moda, quella che piace tanto oggi, fotografata sulle passerelle, ammirata sulle riviste, non sarebbe quella che è senza il suo coraggioso e spavaldo contributo. Classe 1923, figlio di un maggiordomo, laureato in ingegneria civile, Andrè Courregès ha mosso i primi passi nell’industria lavorando nell’atelier di Cristobal Balenciaga, per poi fondare la sua griffe, 11 anni dopo insieme alla moglie, Coqueline Barrière.

Ma la straordinarietà dello stilista francese, non sta tanto nel suo percorso curricolare quanto nella sua capacità di stravolgere i codici estetici con l’innata ironia, con quel guizzo di follia, che accende lo sguardo di chi è composto quasi totalmente da genialità.

Si pensi a Salvador Dalì, che era riuscito a scavalcare la realtà visibile farcendola di una dimensione onirica solitamente segregata nell’inconscio degli individui. Il suo approccio surreale lo aveva imposto anche alla moda, collaborando con Elsa Schiaparelli e creando con lei abiti-aragosta. Allo stesso modo aveva reagito Courrèges alle silhouettes femminili degli anni ’60. Le aveva liberate con pochi, puliti, tratti lineari, dall’attenzione per le forme dagli ammiccamenti sensuali, dall’insopportabile pressione di dover a tutti i costi esaltare le grazie. Non è un caso che proprio Dalì ne apprezzasse tanto il lavoro. Lo dimostrano i ritratti dell’artista con indosso gli iconici ‘Eskimo’, giganti occhiali bianchi lanciati dallo stilista nel ’65, che permettevano di spiare il mondo da una sottile fessura.

Courrèges amava il bianco ottico, le tonalità lunari, le linee immacolate, le ambientazioni futuristiche (ricreate perfettamente nelle sue collezioni) e soprattutto le donne. E le donne, comprese muse del calibro di Brigitte Bardot, Romy Schneider o Jackie Kennedy, lo ricambiavano grate per il trasporto con cui si era impegnato a regalare loro un’immagine nuova: moderna, fresca, libera da sovrastrutture e decisamente più giovanile. Liberate dai tacchi, le sue ambasciatrici indossavano i go-go boots –stivali dal tacco basso che esaltavano le gambe senza comprometterne la comodità- sotto agli abitini costellati di oblò e i cappellini dal rigore geometrico.
Folle quindi, ma soprattutto geniale, lo stilista ha concentrato la sua rivoluzione sulle gambe; ha imposto prima i pantaloni mandando in passerella, nel 1963, una collezione completamente incentrata su un capo fino ad allora riservato al guardaroba maschile, per poi lanciare, solo due anni dopo, un capo cult ancora in voga tanto in passerella quanto sulle strade alla moda delle città: la minigonna.