Guccini, i 75 anni dell’hidalgo di Pavana

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“…e Pavana un ricordo lasciato tra i castagni dell’Appennino, l’inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello…”. La prima volta avevo 15 anni: presi il treno dalla remota provincia toscana e come direzione solo Pavana, o meglio Sambuca Pistoiese, la stazione ferroviaria più vicina. Si cambiava a Firenze Rifredi, coincidenza per Pistoia, e da qui a Sambuca. Pavana è l’ultimo paese della Toscana prima dell’Emilia Romagna. Perduta tra i castagni, appunto; come del resto si perde l’accento che per molti caratterizza noi toscani: le ci aspirate e le liquide arrotate. Pavana se ne sta là sopra nel silenzio di una montagna incantata.

Francesco Guccini abitava a Pavana per buona parte dell’anno, e per i fan sfegatati come il sottoscritto era un terno al lotto: fare il viaggio sperando di trovarlo, stringergli la mano e chiedere un autografo. La prima volta avevo 15 anni e quella rabbia data dalle tre certezze in croce che hanno gli adolescenti. Alla porta di casa mi si presentò davanti un omone grande e grosso, una stazza che non ti aspettavi stando seduto per terra ai concerti. Un immenso sorriso, mi strinse la mano e mi chiese da dove venissi. Mi invitò ad entrare, due chiacchiere che nemmeno ricordo, o almeno ricordo solo i monosillabi dell’emozione. “E che ci fai qua?”, “Volevo, cioè, vorrei un autografo”, “Tre ore di treni per un autografo? Eccoti…”. Mi porse un foglio bianco con la dedica e la sua firma. Ce l’ho ancora, nemmeno a dirlo. “Al prossimo concerto però dovrebbe cantare ‘Van Loon’, non la fa mai…”, “Tu vieni e ti accontento”. Non ricordo se il concerto cui andai con gli amici di allora fosse a Firenze, a Pisa o in altro posto, ricordo però che a un certo punto esordì: “E adesso una canzone che non faccio spesso, una delle meno conosciute…”. Attaccò con le note di ‘Van Loon’. L’ingenuità dei 16enni è disarmante e per quei 5 minuti di musica e parole pensai davvero che l’avesse cantata per me.

Il 14 giugno Francesco Guccini compie 75 anni. E’ uno dei massimi esponenti della scuola emiliana, ovvero i cantautori che tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta hanno inciso sulla cultura musicale non commerciale italiana. Oggi Guccini si è ritirato dal palco. Scrive romanzi gialli con Loriano Macchiavelli. Talvolta pubblica libri. Pare abbia un certo successo. I suoi testi furono qualche anno fa anche argomento di un corso universitario tenuto dal suo amico di sempre, Roberto Vecchioni, nell’ateneo di Pavia. Già, perché Guccini sta fuori dal seminato delle sette note e si è conquistato in oltre quarant’anni di attività un posto di tutto rispetto dentro l’empireo letterario. Solo in un Paese come questo, un’Italia la cui scuola ignora quasi tutto il Novecento di romanzi e poesia, i testi di Guccini non sono ancora stati inseriti di diritto dentro alle antologie di un qualsiasi liceo. Ma anche questo è un segno dei tempi.
Guccini esordì giovanissimo con una delle canzoni che più di altre rappresenterà la generazione presessantottina, Dio è morto, che nel 1966 fu però portata al successo dai Nomadi di Augusto Daolio. Incipit fortissimo: “Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente, seguire il sogno che conduce alla pazzia…”. L’eco di Allen Ginsberg e del suo The howl è plateale: “I saw the best minds of my generation destroyed by the madness…”. Il primo disco è del 1967, Folk Beat n°1. Commercialmente un fiasco. Dentro c’erano già uno stile che si sarebbe perfezionato lasciando andare le suggestioni d’Oltreoceano di quegli anni e quelle tematiche che nel tempo si sarebbero invece fatte più intime e riflettute.

Giovane_gucciniSeguì Due anni dopo del 1970 l’album in cui si poteva ascoltare il testo rivoluzionario e anticonformista per un artista di sinistra vicino a quel Pci. Nella Primavera di Praga si ripercorreva la sorte atroce di Jan Palach – che qui è legato idealmente a Jan Hus – immolatosi per la libertà della propria terra all’epoca sotto il giogo sovietico: “…son come falchi quei carri appostati, corron parole sui visi arrossati, corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga…”. Nessuno sconto alle porcherie del governo di Mosca, a differenza, tanto per dire di chi nel Pci, come Giorgio Napolitano sulle colonne dell’Unità, giustificava l’intervento del 1968 – e furono parole, quelle di Guccini, che persino la gioventù di destra sposò e fece sue…

Si potrebbe andare avanti nello snocciolare la discografia, ma avrebbe poco senso. In vista di questo traguardo c’è solamente da fare notare come uno dei cantautori più impegnati – leggasi schierati politicamente, a sinistra guarda un po’ – sia comunque riuscito a scrivere alcuni dei testi più significativi degli ultimi 30 anni. Nel mentre che la letteratura è stata messa al palo, con una società sempre meno avvezza alla lettura, i testi di Guccini sono stati il veicolo di stimoli e riflessioni. Marcati da un profondo pessimismo quasi leopardiano, amori laceranti finiti, peggio amori normali (“…farewell, non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d’estate con qualcosa di fragile come le storie passate; forse un tempo poteva commuoverti ma ora è inutile – credo – perché ogni volta che piangi o che ridi non piangi e non ridi con me…”), amori di immaginati di passaggio in autogrill, storie di teologia negativa nel solco di Montale (Quello che non… del 1990 è emblematica).

Guccini nel 1974 se ne uscì con un disco denso e intimista: Stanze della vita quotidiana. Un giovane critico scrisse una recensione nella quale si diceva che “…Francesco ormai è stanco e il suo sfornare un album ogni due anni lo dimostra, non ha più niente da dire…”. Il disco precedente era Radici, quello della Locomotiva. Il disco del 1976 fu Via Paolo Fabbri 43 – che era pure il suo indirizzo bolognese – e dentro ne L’avvelenata così ringraziò quel giornalista: “…colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo i coglioni; che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate…”. Riccardo Bertoncelli anni dopo ci scherzerà su: “Grazie a quella canzone ho conosciuto la fama”, e ancora oggi i due sono in ottimi rapporti.

Gli anni Novanta – quelli del berlusconismo – furono poi salutati da Parnassius Guccinii che dentro aveva Nostra signora dell’ipocrisia, duro attacco alla corruzione emersa in Mani Pulite, lo strapotere presunto dei media e il ‘plagio’ delle coscienze attraverso le tv. Ma conteneva soprattutto la canzone dedicata alla terrorista Baraldini con le pesanti parole “…Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente…”. Venne poi Piazza Alimonda (in Stagioni, 2000) , in cui la vita di Carlo Giuliani veniva paragonata a quella dei pacifici manifestanti. Più di quarant’anni di attività, sia concesso, hanno fisiologicamente alti e bassi. I primi Francesco Guccini li ha sempre toccati nella sua produzione esistenziale, i secondi ogni volta che ha voluto confrontarsi con la cronaca del contingente, e alla fine sono pure tollerabili.

Ecco perché adesso che non scrive più canzoni, adesso che non sale più sui palchi, ora che pure ha scaricato in recenti interviste il Pd a trazione renziana, non resta che pensarlo nella sua Pavana, vestendo i panni involontari di quel Van Loon: “…i bagagli già pronti da tempo come ogni uomo prudente, o meglio, il bagaglio, quello consueto di un semplice o un saggio, cioè poco o niente, e andrà davvero in un suo luogo o una sua storia con tutti i libri che la vita gli ha proibito con vecchi amici di cui ha perso la memoria con l’infinito, dove anche su quei monti nostri è sempre estate, ma se uno vuole quell’inverno senza affanni che scricchiolava in gelo sotto le chiodate scarpe d’un tempo, dei suoi diciott’anni…”. Auguri.