Dopo 3 anni, torna il capolavoro di Mantegna

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Camera picta

Finalmente. Dopo tre anni dal terremoto che ne compromise gravemente la conservazione, riaprirà a Mantova in tutto il suo splendore la celebrata Camera degli Sposi opera somma di Andrea Mantegna. Giovedì 2 aprile alle 11.30 sarà il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, a tagliare il nastro insieme al sindaco di Mantova, Nicola Sodano, e soprattutto alla presenza della ex soprintendente Giovanna Paolozzi Strozzi, oggi direttore del Polo museale regionale del Piemonte, che tanto si è adoperata per il recupero del superbo ambiente affrescato, nononstante la mancanza di fondi e le lungaggini burocratiche. Il giorno successivo, venerdì 3 aprile, è prevista l’apertura al pubblico.

Questo inimitabile capolavoro rinascimentale torna dunque a far parte del patrimonio artistico italiano accessibile ai visitatori dopo i lavori di adeguamento strutturale e antisismico dell’area danneggiata dal sisma 2012. Situata all’interno del trecentesco Castello di San Giorgio, che si erge in magnifica posizione sulla sponda dei laghi virgiliani, la Camera è raggiungibile dal Palazzo Ducale per mezzo del cinquecentesco Scalone di Enea che scavalca agilmente il pigro fossato; sulla destra s’intravvede il cortile, che subì nel ‘400 una risistemazione toscaneggiante forse ideata dallo stesso Mantegna e certo non immemore del brunelleschiano Ospedale degli Innocenti. Salendo la cordonata di una rampa elicoidale, percorribile un tempo anche a cavallo, si giunge al primo piano della rocca che conserva gelosamente nella torre di nord-est questo gioiello dell’arte di ogni tempo, realizzato tra il 1465 e il 1474.

La sala, che sarebbe opportuno chiamare col nome originario di Camera Picta, è di dimensioni contenute, che rischiavano di togliere incisività e ampiezza di respiro agli affreschi commissionati da Lodovico II Gonzaga, marchese di Mantova. L’artista risolse magistralmente il problema dipingendo una successione continua di pilastri quadrati, che trasformano il tetragono ambiente in uno squisito padiglione rinascimentale sfolgorante di mosaici e si sontuose specchiature marmoree all’antica.

Negli intercolunni pendono rabescati cuoi di Cordova, che probabilmente si intonavano con raffinata sapienza al baldacchino teso tra le due pareti in ombra a proteggere gli aristocratici sonni del marchese. Sulle pareti di fronte i pesanti cortinaggi si scostano, come un sipario tirato da mani invisibili, per rivelare il ritratto ufficiale dei dominanti, che il pittore padovano eseguì nello spirito di un realismo a volte spietato, effigiandoli esattamente com’erano: poco avvenenti, colpiti-dalle maligne tare congenite, segnati dal tempo implacabile, dalle malattie e dagli affanni non avevano certo risparmiato i signori di Mantova.

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La celebre volta della Camera Picta

Al di sopra delle calendule araldiche che fregiano il camino si svolge, intima e ad un tempo celebrativa, la Scena della Corte. Lodovico II, ammantato di una soffice ma preziosa veste da camera, commenta col suo segretario una missiva; la lettera in questione lo invita ad accorrere a Milano dove una grave malattia di Francesco Sforza, fa temere alla duchessa Bianca Maria Visconti lo scoppiare di una crisi politica e dinastica. Alla pressante richiesta d’aiuto il marchese rispose generosamente, come sempre aveva fatto in passato; ma la sua fedeltà alla causa sforzesca ricevette di lì a pochi anni un’ingrata mercede: per un venale calcolo politico il duca Francesco spezzò brutalmente il fidanzamento tra il suo erede Galeazzo Maria e Dorotea, figlia del leale Gonzaga, affermando nella più perfetta malafede che la sventurata fanciulla aveva la gobba. Dorotea, schiantata dal peso della perfida calunnia, morì giovanissima in un convento nel 1467, rimpiangendo ben poco la fine precoce di una vita già amara. La vediamo ritratta mentre porge alla madre Barbara di Brandeburgo una simbolica mela: è il pomo della discordia che divide i due casati padani a causa dell’increscioso incidente.

Altri figli circondano la buona marchesa, rivestita di aurei broccati, ma tradita da un’acconciatura che non le si addice affatto. Gian Francesco, capostipite del ramo sabbionetano, appoggia le mani con un gesto di affettuosa protezione sulle spalle rachitiche di Lodovichino, proto-notarlo apostolico e vescovo in erba (aveva otto anni quando fu consacrato presule…); dietro lo scranno materno si riconosce Rodolfo, da cui discenderanno i principi di Castiglione e il santo Luigi Gonzaga; accanto a lui, l’incantevole apparizione della sorella Barbarina – unica nota di grazia in mezzo alla generale bruttezza – completa piacevolmente il quadro familiare.

Intorno si muove, ieratica, la lenta teoria dei cortigiani; un’impettita nanetta posa orgogliosa del suo insperato primo piano e il cane prediletto di Lodovico, il fulvo Rubino, occhieggia tranquillo al di sotto del faldistorio marchionale.

Lodovico II incontra i figli
Lodovico II incontra i figli

Sulla parete vicina il marchese, rispondendo all’appello sforzesco, si è messo in viaggio verso Milano e sulla strada, alla altezza di Bozzolo, incontra i due figli maggiori: Francesco, appena creato cardinale da papa Pio II alla matura età di 19 anni, e il primogenito Federico, vestito di giallo e turchino, che si tiene leggermente in disparte all’altra estremità della scena; le voluminose pieghe della sua variopinta “zornea” nascondono la schiena deforme del principe, che a differenza della sorella Dorotea esibiva un’inequivocabile gibbosità. I bimbi che danno la mano al rubizzo prelato sono cadetti destinati fin dalla culla alla carriera ecclesiastica: è la Chiesa che fronteggia lo Stato, simboleggiato da Lodovico II e dal nipote Francesco – il futuro marito d’Isabella d’Este – che si tiene bravamente vicino al nonno marchese, da cui erediterà un giorno il potere ed il trono.

L’ideale visione di Roma alle spalle dei personaggi – Andrea non l’aveva mai vista e fu costretto ad improvvisare, basandosi sulle descrizioni a portata di mano – non ha alcuna connessione con l’episodio narrato, ma è solo un riferimento celebrativo alla recente dignità di Francesco, il primo della famiglia a ricevere il galero cardinalizio, ed esprime l’augurio di una futura ascesa al sacro soglio.

Negli spazi fra le colonne, sullo sfondo verdeggiante di paesaggi laziali e delle piante di agrumi tanto care al Mantegna, si affollano donzelli e valletti del corteggio del principe: abbigliati nell’attillatissime “calzebrache” del tempo, trattengono cerimoniosamente le scattanti mute da caccia ed il nervoso palafreno del loro signore. Per quanto concerne l’annosa querelle dell’autoritratto del maestro, è stata destituita da qualsiasi fondamento la tesi che individuava il Mantegna nel bonario faccione inquadrato da un berretto violaceo, che emerge sul fianco del gobbo Federico e che appartiene, senz’ombra di dubbio, a Cristiano I re di Danimarca, cognato del marchese di Mantova.

L'autoritratto di Mantegna
L’autoritratto di Mantegna

Il vero Mantegna fa capolino dalle volute vegetali che decorano il pilastro dipinto tra Lodovico II e la porta: un piccolo volto accigliato, irrealmente sospeso all’altezza dei genietti che sostengono la tabella dedicatoria, sfoggiando iridescenti ali di farfalla e setosi incarnati dalle trasparenze alabastrine. Il motivo di tale bizzarra collocazione è semplice: il Maestro non era nobile e quindi avrebbe dovuto inserire se stesso in mezzo alla turba dei servitori. Sicuro del proprio genio e orgoglioso come Lucifero, Mantegna preferì allora trasformarsi in una sorta di genius loci, che osserva e protegge dalle ingerenze profane il suo capo d’opera. In alto, al culmine della volta, rilucente in passato d’oro zecchino, si apre un oculo rotondo dal quale si effondono i riflessi turchesi del cielo; in un brioso assieparsi di fanciulle e amorini, uno schiavo negro contempla una dama sdegnosa ed uno snello pavone si protende verso i frutti di un vaso sorretto precariamente da un esile legno.

Nonostante la presenza del letto marchionale – documentata anche dai ganci di ferro che servivano a sostenerne i drappeggi – la Camera Picta assolveva essenzialmente alla funzione di Sala delle Udienze e studio privato di Lodovico II. In essa il marchese riceveva ospiti ed ambasciatori, offrendo alla loro ammirazione un saggio incomparabile del mecenatismo dei Gonzaga.

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> Gli orari di apertura saranno i seguenti: dal martedì alla domenica: 8.15 / 19.15. Chiusura cassa ore 18.20; chiuso il lunedì, il 25 dicembre, il 1° gennaio. L’accesso alla Camera degli Sposi è contingentato a un numero massimo di 1.500 ingressi al giorno ed è consentito a gruppi costituiti al massimo da 25 persone. La permanenza all’interno della Camera non può superare i 5 minuti.

 

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