Luca Moscariello: l’allegria dei naufraghi tra Morandi e Cosmè Tura

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Realtà e linguaggio, natura e segno, dato empirico-sensoriale e processo concettuale: questi i due grandi filoni che a partire dal Novecento si scindono e contrappongono, nell’arte così come in altre forme espressive, con la consapevolezza di non essere più comprese in unità dialettica, ma di appartenere a due dimensioni diverse, se non opposte.

Luca Moscariello, 2014

Questo concetto è stato perfettamente sintetizzato da Yves Bonnefoy nel  saggio Osservazioni sullo sguardo: “Fino all’epoca dei Fiori del Male, dedicarsi alle speranze o alle sofferenze degli esseri quali realmente esistono era sembrato più importante, in arte o in poesia, della sperimentazione sulle forme e sul linguaggio. […] Sennonché, dopo più di un secolo ormai, hanno avuto luogo grandi cambiamenti nella coscienza che l’essere parlante ha di sé. Marx e poi Freud hanno dimostrato che quando si credeva di enunciare una verità su se stessi o sulla società o il mondo, si obbediva di fatto a desideri censurati, a interessi inconfessabili, illusioni inconsce in grado di screditare con la loro natura del tutto diversa molto crudelmente ciò che si credeva più veritiero. E per sovrappiù i linguisti scoprirono che nei sistemi dei segni in cui i discorsi prendono forma esistono rapporti tra elementi significanti che non possiamo controllare e neppure mettere bene in evidenza: funzionamenti autonomi degli strumenti della conoscenza, scalzamento di ogni cogito che abbia eventualmente trovato, studiando tutte le vie del pensiero, un motivo per avere fiducia nella propria lucidità. Risultato di queste scoperte è una critica del dire com’era stato elaborato attraverso i secoli da parte dei pittori e dei poeti”.

Il filosofo e storico francese ci dimostra come in epoca contemporanea l’artista esplori i meccanismi di funzionamento dei diversi linguaggi, verbali o visivi, prenda coscienza della vita del tutto indipendente, autonoma, dei segni e si renda conto di come questi segni costruiscano lo sguardo stesso e persino la consistenza delle cose, senza più rivolgersi direttamente agli avvenimenti o ai luoghi dell’esistenza reale.

Quanto descritto sopra sembra riproporre il processo mentale e visivo con cui opera Luca Moscariello. Nella sua ricerca, la pienezza della presenza reale sembra svanire e lasciare a poco a poco il passo all’esercizio dei segni, in un gioco in cui la ripresa del dato sensoriale diventa un congegno per variare le forme e forgiare nuovi algoritmi.

Se visivamente le sue composizioni sembrano inaspettatamente rievocare le zattere del progetto performativo Swimming Cities con cui la street artist americana Swoon ha navigato prima il Mississippi e poi il Mar Adriatico, in realtà per l’autore il riferimento concettuale e iconografico alla zattera, al relitto, è un pretesto per una riflessione sullo stato della pittura, sullo statuto del linguaggio e sulle possibilità di consunzione e resistenza delle immagini e dei segni.

Nelle sue opere il naufragio del vascello, la sparizione del bastimento e la sostituzione della zattera nei vessilli bicolore, nei festoni variopinti e nei suoi elementi portanti si trasforma in un fluttuante accumulo di immagini apparentemente solari e cariche in superficie, ma che in sostanza presagiscono a una nuova iconoclastia.

Come allude il titolo della personale Allegria di Naufragi – citazione dal nome della prima raccolta poetica di Giuseppe Ungaretti – Moscariello costruisce le sue opere pittoriche attraverso una progressione di ossimori, paradossi e dicotomie visuali tra l’apparenza squillante dei colori e la profondità di silenzio in essi celata, tra l’illusorietà della luce e il labirinto delle forme.

Tanti i riferimenti e le radici di questa pittura, sempre e comunque ancorata nella rivoluzione estetica ed espressiva del secolo scorso: Ivan Quaroni rievocava “l’eredità metafisica di De Chirico, l’allucinata fissità dei pittori del Novecento, la matrice italiana di Valori Plastici e quella germanica della Neue Sachlickeit”, fino al richiamo, nella struttura compositiva, della Scuola di Lipsia. Dal suo canto, Luca Moscariello, in un’intervista a Igor Zanti, denuncia che le sue maggiori fascinazioni sono date “dall’osservare ancora autori come Carpaccio, Piazzetta, Bruegel, Tura, Tintoretto o Guido Reni.

Da questo lato autori che guardano direttamente al senso del mondo e ai momenti fondamentali dell’esistenza, tra la nascita e la morte, e che vogliono rappresentare la vita. Dall’altro, invece, autori che indagano i significanti e i reticoli delle strutture, e che, attraverso decrittazioni, decodifiche, decifrazioni, al limite del metafisico, trasformarono i loro quadri in semplice materiale segnico per evocare le strutture psichiche o le forze in atto nella società.

Tra queste due alternative non è stato ancora evocato un autore che può costituire una sintesi praticabile tra le due istanze e che Luca Moscariello, essendo quanto lui bolognese, deve aver sicuramente conosciuto, amato e poi, forse, in un secondo momento messo da parte: Giorgio Morandi