Se il furbetto Matteo Renzi sbaglia le citazioni da Dante

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La sa anche mia nonna: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”; la nonna sa anche che si pronuncia “canoscenza”, con la “a”, e non “conoscenza” con la “o”, come ha detto Matteo Renzi nel suo discorso al Parlamento europeo.

A semestre di presidenza italiano finito ci resta in pugno più o meno solo questo. Una citazione formulare, una fotocopia farlocca di Roberto Benigni, che, in contesto, sembra il borbottio di Pavlov di fronte al Babau antieuropeista, nella fattispecie Matteo Salvini. Uno che ha invece enumerato, con una certa concretezza, le tante cose non fatte da Renzi, in Europa e in Italia. Ma, anche, uno contro cui si può agitare lo straw man del leghista con l’anello al naso, che non legge due libri all’anno, e probabilmente, nell’immagine che se ne vuole dare, che si sbrodola quando beve e piscia negli angoli.

Eh sì perché il contrasto tra i due è anche un segnale di due retoriche a confronto. Renzi curiale, Salvini punk, il primo pompiere, il secondo incendiario. Il primo che ha attraversato il postmoderno ed è approdato all’ipermoderno, cioè un citazionismo tutto sentimentale, sterilizzato da ogni spirito critico, quindi perfettamente strumentale alla linea che vuole l’Italia a tappetino con l’Europa.
Il secondo che fa politica circondato di richiami identitari esagerati, ma proprio per questo scopertamente propagandistici, Riconoscibili. E al dunque può permettersi un lusso inaudito, quello dei fatti, stilando, semplicemente, un elenco di cose non fatte dall’avversario.

Ed è chiaro che Salvini può dire quello che dice perché è esentato dalla responsabilità di governare. Ma è altrettanto chiaro che Renzi dovrebbe rinfrescarsi le citazioni. Leggersi un paio di libri, magari?

21 Commenti

  1. .. ma Renzi non demorde e – avvolto nel suo istituzionale egotismo che non gli permette passi indietro – dichiara: ” E’ Dante che ha sbagliato!”

  2. La cosa buffa e’ che Dante ha messo Ulisse all’inferno, tra i traditori della patria, perche’ dopo la sua arringa convinse tutti i suoi compagni a seguirlo e morirono tutti!

    • Certoooooo. Incredibile, la citazione renzian-dantesca è pregna di significati ultronei

    • Ulisse è tra i consiglieri fraudolenti (ottava bolgia dell’ottavo cerchio). I traditori della patria si trovano nella seconda zona, detta Antenora, del nono cerchio. Solo per la precisione

  3. Io personalmente non sono estimatore di Matteo
    Renzi (a mio avviso, nessuna persona che non abbia almeno sessant’anni dovrebbe ardire di presiedere un governo, a meno che non abbia guidato una rivoluzione). Tuttavia, affibbiargli ogni sorta di insulti per il fatto di avere citato Dante pronunciando “conoscenza” anziché “canascenza” mi pare, francamente, eccessivo (non dico di peggio)e pericoloso, perché costituisce un invito a giudicarci con lo stesso metro, secondo
    il quale probabilmente nessuno di noi si salva.

    • Lei probabilmente ha ragione. Da un alto, però, citare e sbagliare è ridicolo; certo capita a tutti un lapsus calami, ma non c’è cosa peggiore di uno che si finge intelligente (o colto) e non lo è (cit. di Linus rivolto a Lucy). Dall’altro, il diavolo – e ben lo sapevano i miniatori medievali – si nasconde nel “busillis”.

  4. fosse solo quello…. ogni occasione è sempre buona per dar sfoggio della propria ignoranza, ecco perché le persone più colte [ed intelligenti] parlano sempre poco.
    Cmq il massimo è quando si esprime in inglese
    https://www.youtube.com/watch?v=lQHtBhBV__E
    Rutelli in confronto merita il massimo del TOEFL

  5. Il tuo commento è in attesa di essere approvato
    PREMIER MINISTRI SEGRETARI SOTTOSEGRETARI PARLANO E FANNO RIFORME CON I CONSIGLI E CITAZIONI DI QUELLI CHE STANNO DIETRO DI LORO QUESTA E’ L’INTELLIGENZA DEI NOSTRI POLITICI

  6. C’è chi sbaglia usando la forma moderna di canoscenza (appunto conoscenza) e veri ignoranti che si inventano un fantasioso Remolo fratello Romolo ma che passa inosservato agli stessi critici di queste pagine.

  7. Non sarebbe il caso che questo saputello fiorentino si sforzasse a capire i “tre” che, forse, ha letto? Lo
    squallido livello delle sue polemiche mi ricorda molto “il bue che da del cornuto all’asino”.

    • Tanto per ripassare il canto XXVI dell’Inferno

      Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
      che per mare e per terra batti l’ali,
      e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

      Tra li ladron trovai cinque cotali
      tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
      e tu in grande orranza non ne sali.

      Ma se presso al mattin del ver si sogna,
      tu sentirai, di qua da picciol tempo,
      di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

      E se già fosse, non saria per tempo.
      Così foss’ ei, da che pur esser dee!
      ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

      Noi ci partimmo, e su per le scalee
      che n’avea fatto iborni a scender pria,
      rimontò ‘l duca mio e trasse mee;

      e proseguendo la solinga via,
      tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scoglio
      lo piè sanza la man non si spedia.

      Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
      quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
      e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,

      perché non corra che virtù nol guidi;
      sì che, se stella bona o miglior cosa
      m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

      Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,
      nel tempo che colui che ‘l mondo schiara
      la faccia sua a noi tien meno ascosa,

      come la mosca cede a la zanzara,
      vede lucciole giù per la vallea,
      forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:

      di tante fiamme tutta risplendea
      l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
      tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.

      E qual colui che si vengiò con li orsi
      vide ‘l carro d’Elia al dipartire,
      quando i cavalli al cielo erti levorsi,

      che nol potea sì con li occhi seguire,
      ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
      sì come nuvoletta, in sù salire:

      tal si move ciascuna per la gola
      del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,
      e ogne fiamma un peccatore invola.

      Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
      sì che s’io non avessi un ronchion preso,
      caduto sarei giù sanz’ esser urto.

      E ‘l duca che mi vide tanto atteso,
      disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
      catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

      «Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti
      son io più certo; ma già m’era avviso
      che così fosse, e già voleva dirti:

      chi è ‘n quel foco che vien sì diviso
      di sopra, che par surger de la pira
      dov’ Eteòcle col fratel fu miso?».

      Rispuose a me: «Là dentro si martira
      Ulisse e Dïomede, e così insieme
      a la vendetta vanno come a l’ira;

      e dentro da la lor fiamma si geme
      l’agguato del caval che fé la porta
      onde uscì de’ Romani il gentil seme.

      Piangevisi entro l’arte per che, morta,
      Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
      e del Palladio pena vi si porta».

      «S’ei posson dentro da quelle faville
      parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego
      e ripriego, che ‘l priego vaglia mille,

      che non mi facci de l’attender niego
      fin che la fiamma cornuta qua vegna;
      vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

      Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
      di molta loda, e io però l’accetto;
      ma fa che la tua lingua si sostegna.

      Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
      ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
      perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».

      Poi che la fiamma fu venuta quivi
      dove parve al mio duca tempo e loco,
      in questa forma lui parlare audivi:

      «O voi che siete due dentro ad un foco,
      s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
      s’io meritai di voi assai o poco

      quando nel mondo li alti versi scrissi,
      non vi movete; ma l’un di voi dica
      dove, per lui, perduto a morir gissi».

      Lo maggior corno de la fiamma antica
      cominciò a crollarsi mormorando,
      pur come quella cui vento affatica;

      indi la cima qua e là menando,
      come fosse la lingua che parlasse,
      gittò voce di fuori e disse: «Quando

      mi diparti’ da Circe, che sottrasse
      me più d’un anno là presso a Gaeta,
      prima che sì Enëa la nomasse,

      né dolcezza di figlio, né la pieta
      del vecchio padre, né ‘l debito amore
      lo qual dovea Penelopè far lieta,

      vincer potero dentro a me l’ardore
      ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
      e de li vizi umani e del valore;

      ma misi me per l’alto mare aperto
      sol con un legno e con quella compagna
      picciola da la qual non fui diserto.

      L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
      fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
      e l’altre che quel mare intorno bagna.

      Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
      quando venimmo a quella foce stretta
      dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

      acciò che l’uom più oltre non si metta;
      da la man destra mi lasciai Sibilia,
      da l’altra già m’avea lasciata Setta.

      “O frati”, dissi, “che per cento milia
      perigli siete giunti a l’occidente,
      a questa tanto picciola vigilia

      d’i nostri sensi ch’è del rimanente
      non vogliate negar l’esperïenza,
      di retro al sol, del mondo sanza gente.

      Considerate la vostra semenza:
      fatti non foste a viver come bruti,
      ma per seguir virtute e canoscenza”.

      Li miei compagni fec’ io sì aguti,
      con questa orazion picciola, al cammino,
      che a pena poscia li avrei ritenuti;

      e volta nostra poppa nel mattino,
      de’ remi facemmo ali al folle volo,
      sempre acquistando dal lato mancino.

      Tutte le stelle già de l’altro polo
      vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
      che non surgëa fuor del marin suolo.

      Cinque volte racceso e tante casso
      lo lume era di sotto da la luna,
      poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,

      quando n’apparve una montagna, bruna
      per la distanza, e parvemi alta tanto
      quanto veduta non avëa alcuna.

      Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
      ché de la nova terra un turbo nacque
      e percosse del legno il primo canto.

      Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
      a la quarta levar la poppa in suso
      e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

      infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».

  8. Il classico saputello ignorantone.Con Salvini : il bue che chiama cornuto l’asino.

  9. ogni giorno conferma la sua stupidità, ignoranza e presunzione. ma ancora per poco!

  10. ora lo sappiamo. non solo renzi è un buffone. ma è anche un paraculo! è di quel tipo come il sordo che ci sente quanto gli fa comodo (con le protesi)….

  11. Per la verita’ Renzi ha tramutato un endecasillabo in un dodecasillabo citando “Fatti non foste Per viver come bruti” in luogo di “Fatti non foste A viver come bruti” dimostrando ignoranza e proropopea.

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