GIORNATA DELLA MEMORIA Ex tenebrae lux

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Il Giorno della Memoria è una ricorrenza – votata dalla Nazioni Unite – che si celebra il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell’Olocausto. In questo giorno si celebra la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945. Per l’occasione diamo spazio a una bellissima mostra curata da Margherita Fontanesi che si tiene a Reggio Emilia dedicata appunto alla memoria della Shoah attraverso la metafora del bosco.

La scelta di avvicinarsi all’Olocausto attraverso la metafora del bosco risponde a diversi motivi: prima di tutto la volontà di evitare quanto più possibile la retorica e l’iconografia dell’orrore fatta di treni, baracche, filo spinato, stelle gialle e divise a righe, perché quanto più questi simboli si ripetono in contesti disparati tanto più vengono metabolizzati e ci si abitua alla loro vista. All’idea della Shoah, non ci si deve abituare. Per questo credo sia giusto parlarne con linguaggi sempre nuovi e affrontarne aspetti sempre diversi. L’arte, a differenza dei documenti, non enuncia in modo testuale, ma suggerisce e lo stesso fa la metafora.

Il bosco è carico di valori simbolici e archetipici: è il luogo dove ci si nasconde e dove ci si perde, è il simbolo del viaggio che si compie dentro di sé, ma è anche il luogo della paura per eccellenza. La selva oscura è qui proposta come luogo spaventoso, nel quale sono assenti le certezze della vita quotidiana, i percorsi tracciati, la luce. Un luogo popolato di creature pericolose pronte ad aggredire all’improvviso, un luogo più ferino che umano. Accostare la storia della Shoah attraverso la metafora del bosco è assimilabile allo smarrirsi di Dante nella Selva Oscura. La Shoah del resto è stata quel bosco spaventoso in cui l’uomo ha perso se stesso, entrandoci lentamente, senza capire fino in fondo a cosa andava incontro, pensando di poter tornare indietro e ritrovare i propri passi in qualsiasi momento senza capire che ormai era troppo tardi e che la strada dell’umanità, della razionalità, della normalità era completamente perduta.

Mi sorprende positivamente ogni anno quanto gli artisti accettino, con una partecipazione  sentita, di unirsi a questa ricerca. Per questa mostra sono state prodotte opere di rara intensità che sono entrate in un tema così delicato con forza e rispetto insieme. Le origini culturali e religiose di ciascun artista hanno determinato risultati espressivi e artistici diversi e interessanti. Fania Brancowskaja, partigiana ebrea lituana sopravvissuta all’Olocausto, ha definito le opere d’arte sulla Shoah tante porte diverse attraverso le quali ciascuno può accostarsi alla Storia scegliendo quella più vicina alla propria sensibilità.
Molti e diversi sono gli spunti da cui gli artisti hanno tratto ispirazione per realizzare le loro opere.

Giovanni Frangi, Il fischio della marmotta, 2005
Giovanni Frangi, Il fischio della marmotta, 2005

C’è la selva oscura dantesca, nella quale va ricercata anche l’interpretazione generale della mostra, che rappresenta lo smarrimento per eccellenza, dei carnefici e delle vittime: quello dei nazisti che hanno perso la loro umanità, il senso del bene e del male, del valore della vita, della ragione, scivolando lentamente nell’idea folle della “soluzione finale”. Ma la selva oscura rappresenta anche lo smarrimento delle vittime che vengono deportate nei campi e qui sospinte di passo in passo, attraverso tappe forzate di cui ignorano la successione, verso la morte. L’inoltrarsi giorno dopo giorno nella vita del campo, scontrarsi con le privazioni continue e le violenze disumane è come inoltrarsi in una foresta che diventa a ogni passo più fitta e buia e dalla quale ogni via d’uscita è sempre meno visibile, fino a scomparire del tutto.  Questo si legge ne Il fischio della marmotta, l’opera di Giovanni Frangi che apre questo catalogo. Si tratta di un pezzo essenziale, con tronchi d’albero ripetuti come una litania, al limite dell’astrazione. Perché il “perdersi nel bosco”, sia reale sia figurato, porta a una distorta percezione della realtà. Così gli alberi di Frangi diventano una muraglia impenetrabile, come le sbarre di una prigione e la dominante blu proietta il dipinto nella dimensione irreale del sogno.

Importanti fonti di ispirazione sono state anche le storie di resistenza ebraica nelle foreste, prima fra tutte quella dei fratelli Bielski che, nella Polonia occupata dai tedeschi (l’attuale Bielorussia), organizzarono un gruppo di resistenti che divenne sempre più nutrito con il passare del tempo e che salvò dallo sterminio più di 1.200 ebrei. La Brigata Bielski si accampò nella foresta di Naliboki dove si organizzò con tunnel sotterranei e rifugi dove vivere, infermeria, carpenteria, conceria per la lavorazione di selle e finimenti per i cavalli, sinagoga, classi per l’educazione dei bambini. Nella brigata Bielski ognuno dava il proprio contributo: dai sarti che riparavano i vestiti ai fabbri che creavano nuove armi con i pezzi superstiti di quelle danneggiate. Questo gruppo partigiano arrivò a raccogliere e a proteggere fino a 1230 rifugiati dei quali circa il 70% era costituito da anziani, donne e bambini. Tuvia Bielski, il loro leader, era solito dire che preferiva salvare una vecchia donna ebrea piuttosto che uccidere dieci soldati tedeschi. Se la storia dei fratelli Bielski è la più famosa, molti altri sono stati gli episodi di resistenza ebraica nelle foreste. In questi casi il bosco diventa un rifugio protettivo e il luogo in cui si ricostruisce un gruppo sociale che si oppone alla disumanizzazione della guerra che imperversa fuori.

Fabio Giampietro con il suo Metamorfosi Naliboki ha dipinto un albero che, sineddoche per l’intera foresta, riempie il proprio tronco di abitazioni, rifugio per coloro che cercano di sfuggire alle stragi naziste. L’albero di Fabio Giampietro svetta verso il cielo con l’orgogliosa sfrontatezza degli eroi che si ergono senza paura contro i nemici, sorgendo dal basso, rafforzandosi nell’ascesa, traendo forza dalle proprie radici moltiplicando i propri rami in crescita. La vertigine tipica delle opere di Giampietro diventa qui il brivido che si prova sfidando il pericolo, un secondo prima di lanciarsi in imprese impossibili. Anche Refuses l’opera di Alessandro Bazan evoca il rifugiarsi nelle foreste per organizzare una resistenza. I personaggi fra gli alberi, avvolti da un’intima illuminazione dal basso, sembrano i protagonisti di una nuova società che si sta organizzando. Il tratto nervoso di Bazan vibra della carica cospirativa e della tensione di un momento speciale, della voglia di vivere e di non cedere all’orrore. Pierluigi Pusole in Experiment (serie b), raffigura uomini fra gli alberi, piccole figure fra grandi piante che sembrano mimetizzarsi e fondersi con la foresta stessa, come superstiti dell’inferno dei ghetti ebraici in fiamme delle città europee che scompaiono da quel mondo per ricomparire fra i boschi, unendosi ai resistenti, mimetizzandosi fra le piante, scomparendo agli occhi e alle armi di chi sta dando loro la caccia braccandoli.

Pierluigi Pusole, experiment (serie b), 2011
Pierluigi Pusole, experiment (serie b), 2011

Logging di Kim Dorland e The family di Max Rohr, con i loro alberi abbattuti, rappresentano invece la sconfitta della resistenza. Ricordano vite spezzate e famiglie intere falcidiate, perché l’eroismo purtroppo non sempre ha vinto. Per pochi che sono sopravvissuti, migliaia non ce l’hanno fatta e sono stati massacrati nei modi più atroci. Gli alberi abbattuti e fatti a pezzi sono una potente metafora di quello squarcio straziante che è stato per tanti l’essere strappati ai propri cari. Come testimoniò Bruno Bettelheim dopo più di un anno trascorso fra Buchenwald e Dachau: “Il campo di concentramento era il laboratorio in cui la Gestapo imparava a disintegrare la struttura autonoma degli individui e a spezzare la resistenza civile”. Separare i nuclei famigliari e lavorare sull’annientamento progressivo e inesorabile dell’identità dei singoli prima di ucciderli è reso in questi due dipinti dagli alberi fatti a pezzi.

Un’atmosfera analoga si respira nelle opere di Hyena che testimoniano la solitudine e lo sradicamento. Alberi isolati in lande desolate. Alberi come uomini strappati alla propria terra e galleggianti in uno spazio irreale con i rami spogli e le radici esposte senza più nutrimento a cui attingere, senza supporto nel quale affondare. L’albero dunque come l’uomo: creatura vivente con le radici nella terra e i rami protesi al cielo.

Si rifà in modo esplicito all’idea dell’uomo-albero anche Giorgio Linda con Am Israel Chai e Uomo-Albero due opere che parlano di forza, flessibilità e speranza, della capacità degli ebrei di lottare, di sopravvivere e di ricostruire. Della voglia di guardare al futuro, protesi verso di essi come le piante verso la luce, verso un futuro che si immagina avvolto un bagliore dorato. Sono dipinti leggeri, con pennellate che sembrano soffi, dipinti fatti di luce e di speranza che aprono una nuova prospettiva: il punto di vista degli artisti ebrei invitati a questa collettiva. Giorgio Linda, Barbara Nahmad, Hana Silberstein e Tobia Ravà hanno realizzato opere che parlano non di dolore ma di speranza, non di rabbia e di rancore ma di voglia di costruire, non dell’orrore passato ma del futuro da edificare sulle macerie di questo.

Barbara Nahmad, jumping rope, 2014
Barbara Nahmad, Jumping rope, 2014

Barbara Nahmad con Alla corda lascia il bosco alle spalle di una bambina che gioca e che rappresenta un popolo in crescita come quello del giovane Stato di Israele, un popolo che, pur senza dimenticare, è disposto a lasciare dietro di sé la propria “selva oscura” per guardare avanti. Hana Silberstein ha realizzato per questa mostra Il bosco degli innocenti, un’opera piuttosto vicina alla sua serie dei “Giardini d’infanzia”. Anche questo dipinto, come quelli di Giorgio Linda, ha un fondo giallo e solare come un pensiero ai propri cari scomparsi con l’Olocausto, che l’autrice sembra ricordare uno per uno con tutte le loro diverse personalità e le loro storie, sotto forma dei piccoli alberi che passa in rassegna sulla tela.
Le complesse foreste di Tobia Ravà parlano, attraverso il linguaggio della Ghematrià, del rapporto fra l’uomo, Dio e l’intero universo. Ravà si è sempre occupato della riqualificazione dell’uomo e dell’ambiente illustrando con le sue opere l’armonia che deve intercorrere fra l’uno e l’altro affinché le energie del cosmo siano in equilibrio. Con le foreste esposte in mostra che, come sottolinea Maria Luisa Trevisan e come rivela la loro regolarità, non sono spontanee ma piantumate dall’uomo, l’artista suggerisce quella che dovrebbe essere la grandezza dell’uomo, cioè la sua armonia col creato. Al tempo stesso è forte in questi pezzi anche l’allusione alla tradizione ebraica (ma non solo) di piantare alberi legata alla memoria. In queste foreste dunque gli alberi fitti e regolarmente disposti rappresentano anche le vittime della Shoah.

Anche in Oltre il bosco dei faggi di Luca Moscariello si legge un messaggio di speranza: il dipinto, avvolto in una nebbia inquietante, presenta al suo centro un cumulo di oggetti, effetti personali e ricordi di vite interrotte. L’atmosfera desolata che pervade il dipinto è bilanciata da una nota di colore squillante come una promessa, che occhieggia sulla destra: si tratta di una fenice, il mitologico uccello che rinasce dalle proprie ceneri e che allude alla capacità del popolo ebraico di sopravvivere e di rinascere più forte dopo ogni persecuzione. Il titolo poi fa riferimento al campo di concentramento di Buchenwald il cui toponimo significa proprio “Bosco dei faggi”. Andare oltre il “Bosco dei faggi”, la selva oscura di questo dipinto, significa sopravvivere e sopravvivere significa rinascere, proprio come fa la fenice.

Raffaele Minotto affida alla terra il compito di tramandare la memoria. La sua terra fangosa è ricoperta di pozze che riflettono il cielo e le piante. Una prospettiva diversa da cui vedere il bosco. Lo scorcio di paesaggio del dipinto di Minotto ricorda certi racconti dei sopravvissuti ai campi che parlano di una terra poltigliosa, calpestata ogni giorno da migliaia di piedi, una terra senza un filo d’erba perché i prigionieri affamati mangiavano anche quella. Fulvio di Piazza, sempre forte nelle sue rappresentazioni, dipinge un’albero-foresta che ha le sembianze di un fungo atomico che, nel nostro immaginario contemporaneo, è il simbolo della distruzione totale. Paesaggio a memoria, un’opera del 2011, è stata scelta proprio per la sua capacità sintetica, per la sua formula senza appello. La Shoah è interpretata come una metaforica bomba atomica ha spazzato via sei milioni di vite. Manuel Felisi con Alberi vertigine lascia aperta allo spettatore l’interpretazione della sua opera: non la riveste né di speranza ne di disperazione, ma lascia chi la osserva nel mezzo della sua personale foresta, circondato di alberi tutt’intorno, a guardare verso l’alto. E’ un invito a cercare risposte dentro di sé, a contatto con la propria parte più profonda, a capire se in quel cielo si vede speranza, se in quegli alberi si avverte minaccia o protezione e soprattutto se, alla luce della storia, si riesce vedere una via d’uscita dalle selve oscure nelle quali l’uomo, per i vichiani corsi e ricorsi della storia, tende a scivolare. Fra gli alberi di Manuel Felisi galleggiano scritte che sembrano testimonianze che arrivano dal passato come moniti e che sta a noi cogliere o meno.

Levazione, il complesso lavoro di Simone Pellegrini è un viaggio ai confini dell’uomo. Tra le scintille che lo avvicinano al divino e il sangue che lo lega alla dimensione umana. La ricerca intorno all’uomo che da sempre anima le opere di Pellegrini, facendo di lui un raffinato umanista oltre che un riconosciuto artista, affonda le proprie radici nella più lontana profondità della natura umana fino a sfiorare la sua genesi ferina. Seguendo gli elementi vegetali ed antropomorfi che popolano la grande carta realizzata per questa mostra ci si imbatte in alberi che attraversano la superficie del dipinto conducendo lo sguardo in pozze di sangue, in bilance che pesano il mondo, in grovigli di arti e capelli alla ricerca di una umanità. L’uomo, essere complesso e insondabile, fatto di mille volti e mille anime, per riscattarsi da una bestialità primigenia alla quale si è più volte abbandonato, non ha altra strada che quella della conoscenza di sé. L’opera di Pellegrini è un viatico in tal senso. Senza ascoltarsi e cercare di conoscere sé stessi, entrando anche nei propri lati più oscuri, non si potrà mai essere uomini liberi ma sempre schiavi manipolabili da qualsiasi basso istinto e da qualsiasi dittatore.

Manuel Felisi, alberi, 2014
Manuel Felisi, alberi, 2014

Molteplici sono i boschi che si attraversano in questa mostra, innumerevoli i loro significati e le risposte che offrono alla grande domanda: “come è potuto succedere?” I nazisti hanno costruito i lager in mezzo al nulla, spesso occultandoli con alte siepi e nuove piantumazioni. Nascondere l’orrore è sempre stata una priorità da non dimenticare mai, sia quando queste fabbriche di morte erano in funzione, sia nel momenti in cui sono state smantellate. Le SS hanno distrutto in modo veloce, metodico e inesorabile, tutte le prove possibili di ciò che stava accadendo nei campi di concentramento. Iannis Roder, insegnante e coordinatore della formazione docenti del Mémorial de la Shoah di Parigi, in un suo recente intervento al seminario sulla storia della Shoah, organizzato dal Mémorial stesso e da Istoreco a Reggio Emilia il 15-16 novembre 2014, ha sottolineato come oggi del campo di Auschwitz-Birkenau sia rimasto ben poco da vedere. Lui stesso ha affermato: “Vedere ad Auschwitz non permette sempre di capire mentre invece l’importante è proprio capire”. Il non vedere più nulla, nemmeno nei luoghi protagonisti dei fatti storici, può essere pericoloso. Il tentativo di cancellazione di un intero popolo (tra l’altro ancor oggi tremendamente vivo e auspicato da alcuni gruppi estremisti) e delle testimonianze storiche di questo tentativo può portare all’oblio. Ricordare diventa sempre più importante quindi.

E per ricordare, ne sono sempre più convinta, serve qualsiasi mezzo. Se fondamentali sono i documenti storici e le testimonianze dalla viva voce dei sopravvissuti, altrettanto importanti possono essere le produzioni artistiche che nutrono l’umano bisogno di “vedere”. La comprensione umana difficilmente può arrivare ad accettare e a comprendere l’inimmaginabile. Il linguaggio metaforico di questa mostra può forse aiutare questo processo.

Ci sono boschi che, per quanto ignoti e spaventosi, vanno attraversati per poter rivedere la luce.

> LA SELVA OSCURA
in occasione della Giornata della Memoria 2015 – 70° anniversario della liberazione del Campo di Concentramento di Auschwitz

Correggio, Museo “Il Correggio”, 17 gennaio 2015 – 15 febbraio 2015

opere di
Alessandro Bazan, Fulvio di Piazza, Kim Dorland, Manuel Felisi, Giovanni Frangi, Fabio Giampietro, Hyena, Giorgio Linda, Raffaele Minotto, Luca Moscariello, Barbara Nahmad, Simone Pellegrini, Pierluigi Pusole, Tobia Ravà, Max Rohr, Hana Silberstein.

a cura di Margherita Fontanesi

Per informazioni
museo “Il Correggio” – Palazzo dei Principi, piazza Cavour 7,  Correggio (RE)

Tel. 0522 691806
[email protected]
www.museoilcorreggio.org