Nuovo Mibact, nessun rilancio. Solo tagli

0

Dal 1° gennaio 2015 sarà operativa la riorganizzazione del Mibact, la sesta in pochi anni.

La riforma prevede: riduzione delle figure dirigenziali; qualifica dirigenziale e reclutamento con concorso pubblico per i direttori di soprintendenze speciali e musei di rilevante interesse nazionale, autonomi dal punto di vista tecnico-scientifico, gestionale e contabile; trasformazione della direzione generale per la valorizzazione  in direzione generale per i musei, con il compito di individuare le linee guida per tariffe, ingressi e servizi museali; nascita di poli museali regionali per creare una rete tra musei statali e non, pubblici e privati; una nuova direzione per arte e architettura contemporanea e periferie, con soprintendenze miste; una nuova direzione generale per la ricerca, studio e formazione; ampliamento delle funzioni del segretariato generale (coordinamento della programmazione dei fondi comunitari e monitoraggio sull’art bonus); trasformazione delle direzioni regionali in segretariati regionali, uffici di coordinamento amministrativo con competenze anche per turismo e promozione; accorpamento delle soprintendenze per i beni storico artistici con quelle per i beni architettonici, con un’unica direzione generale.

Per Franceschini, “abbiamo miniere d’oro dappertutto, musei, patrimonio, bellezza, e non le abbiamo sapute usare; per questo “l’amministrazione dovrà essere più snella, efficiente e meno costosa ammodernando la struttura centrale e semplificando quella periferica”. Ma semplificazione è anche altro: abbandonare l’idea di integrità del patrimonio come un insieme organico e unitario di storia, cultura e paesaggio.

Con l’“integrazione fra cultura e turismo”, perno della riforma (ma le vere competenze all’interno del ministero dove sono?), il patrimonio culturale sarà considerato in relazione alla sua redditività. Ma i musei non devono produrre solo soldi bensì cultura, e se devono essere considerati come attrattiva turistica, è il contesto entro cui sono calati a dover fruttare ricchezza. Se si punta sul turismo, l’Italia va resa una meta appetibile con politiche di indirizzo, reti tra operatori, strategie di prodotti e target, riduzione della tassazione per le imprese che si riflette sulla competitività, ampliamento e riqualificazione delle infrastrutture.

Anche in materia di assetto del territorio, ai beni pubblici ambientali e paesaggistici si riconoscerà valore solo in quanto fonte di reddito: i nuovi piani edilizi e le grandi opere subordineranno il paesaggio al governo del territorio con la sospensione di vincoli e piani urbanistici e paesistici o con interventi in difformità (provvedimenti “Decreto cultura”, “Sblocca Italia”, “Direttiva quadro territoriale”). Mentre si crea la nuova direzione generale per l’architettura contemporanea e le periferie, i pareri e le osservazioni delle soprintendenze diventano aggirabili dagli altri attori dei processi e progetti di sviluppo, potendo far ricorso entro 10 giorni alla commissione regionale contro il blocco dei lavori.

Con la creazione dei 20 poli museali, si corre poi il rischio di abbandonare a se stesso quel “museo diffuso” che è caratteristica fondamentale e valore costitutivo della nostra diversità. E la selezione dei direttori garantirà maggior qualità o sarà il lasciapassare per la nomina di manager riciclati, parenti o politici senza poltrona? I problemi dei musei italiani non sono le persone che li dirigono, ma la mancanza cronica di fondi per le attività (restauri, rinnovamento degli apparati didascalici, straordinari dei dipendenti, aggiornamento dei siti web), scarso appeal per il pubblico, mancanza di comunicazione efficace.

Anche gli aspetti positivi della riforma, come la collaborazione fra amministrazione e università, rimangono vaghi. Far crescere professionalmente il personale, aggiornare le competenze, potenziare la digitalizzazione, la raccolta delle informazioni potranno essere realizzati a costo zero, se finalità della riforma è la spending review?

Identificare un rilancio in quello che è un programma di tagli è una contraddizione e lo è ancor più sottrarre risorse. Negli ultimi 12 anni il bilancio del ministero è stato quasi dimezzato (da 2,7 miliardi di euro nel 2001 a 1,5 nel 2013); per il patrimonio più esteso del mondo, lo Stato italiano spende lo 0,2% del suo bilancio, senza considerare la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (Convenzione Unesco), visto che nella riforma non si fa alcun cenno al patrimonio etnoantropologico.

Infine, un’ulteriore contraddizione: la riforma prefigura una struttura accentrata (12 direzioni generali), con il rischio di sovrapposizione di competenze, di mancanza di chiarezza e di aggravio delle procedure, al contrario ad esempio della Francia, il cui ministero prevede solo il segretariato generale, una direzione generale del patrimonio, una della creazione artistica, e una dei media e delle industrie Culturali.

Nonostante lo sforzo, la riforma del Mibact appare lacunosa nei presupposti. La difesa dell’identità culturale è tra i principi fondamentali della nostra Costituzione: solo progettando un sistema dei “beni” che prefiguri una prospettiva di progresso culturale ed economico, si recupererà la consapevolezza della funzione sociale e civile del patrimonio ed il senso di appartenenza a una comunità.

Il mantra che la cultura è il petrolio italiano è obsoleto. La cultura è una risorsa migliore del petrolio: non distrugge il sottosuolo, è energia pulita e rinnovabile, favorisce la qualità degli stili di vita e soprattutto disinquina le menti. Questa è la vera riforma culturale: il resto è solo burocrazia.