Spesso le sentinelle sono dei veri cazzoni: come nel film di Alberto Sordi quando si scopre che il padre nobile dell’Albertone-incorruttibile vigile aveva sparato al re, non riconoscendolo, mentre montava di guardia a una polveriera. Altro che eroe di guerra, imbecille di retroguardia. Così se talvolta le sentinelle in passato sono state dei cazzoni (chi va la?), persiste qualche dubbio che i cazzoni possano essere sentinelle. A maggior ragione quando i “cazzoni” non sono metafora per dire “imbecilli”, bensì quattro, dicasi, quattro falli giganti che solo la brutta creatività del solito “celebre” artista spaccia per “quattro sentinelle”.
Le angherie a cui ci sottopone l’arte contemporanea sono molte. E siamo abituati. Le persone di buon senso spesso non hanno il coraggio di ribellarsi a tanto orrore per evitare di essere considerati retrivi, ignoranti, reazionari. I più deboli fingono di aver capito il gioco. I più stupidi se ne fanno addirittura un vanto, annuendo con risolini delle trovate. Quando le cose restano circoscritte tra le sacre stanze di un museo, possiamo anche riderne e passare oltre. Ma quando la questione si fa pubblica, e le orride installazioni occupano gli spazi pubblici, non c’è alcun motivo per stare zitti e la acquiescenza è una colpa (non un merito). E le cose vanno dette senza troppe metafore e circonlocuzioni come quelle che usano nella loro neolingua noti critici per annebbiare e dissimulare e mantenere un potere.
Prendiamo l’ultimo disdicevole esempio. A Milano, in corso Indipendenza nei presi dei giardini tra piazza Risorgimento e piazzale Dateo, il sedicente artista americano Gavin Kenyon espone una “scultura” composta di 4 peni giganti, intitolandola Quattro sentinelle. Ovviamente non c’è motivo alcuno di occupare un luogo di passeggio con quattro peni, se non il tentativo di farsi pubblicità della galleria che espone nei paraggi mostra del suddetto artista. La gente protesta, l’amministrazione pubblica si difende sostenendo che la schifezza sarebbe ispirata “ai monumenti della città, interpretati in chiave contemporanea attraverso un processo di astrazione e la sperimentazione di nuovi materiali, e rimanda a forme architettoniche tradizionali e riconoscibili, come colonne e basamenti” (verrebbe da chiedere a Pisapia a quali monumenti milanesi davvero si ispira).
L’assessore alla cultura, Filippo del Corno utilizza uno schemino difensivo dei più abusati: “la scultura ha suscitato discussione e dibattito ma è una reazione frequente che le installazioni d’arte pubblica producono” e non si capisce perché una statua debba suscitare per forza “dibattito” inneggiando al pene gigante. Il comune quasi fosse una giustificazione aggiunge che “l’artista statunitense, nonostante abbia solo 34 anni, ha esposto tra l’altro al Moma di New York” come se fosse una nota di merito assoluta; ecchisenefrega se ha esposto al MoMA, se li tengano loro i cazzoni-sentinella senza dar fastidio in piazza Dateo. Tra l’altro la questione dei peni giganti et similia sta facendo il giro del mondo, essendo – a questo punto ci sembra di capire – ossessione degli artisti contemporanei e pare anche degli amministratori pubblici: sempre a Milano hanno esposto falli giganti di legno dello svizzero Peter Regli, a Parigi un dilatatore anale alto venti metri di Paul McCarthy è stato eretto addirittura in Place Vendomme, più di una ghigliottina potè il butt plug per tagliare numerose teste di c…
I MONUMENTI PIU IMBARAZZANTI
La questione della statuaria pubblica in ogni caso suscita dubbi, soprattutto alla luce dei recenti interventi. Ancora nel secolo scorso, si prediligevano pose marziali: re e condottieri a cavallo, oppure uomini d’armi o di pensiero con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Figure che incombevano sulle piazze delle città, ricordando la bellezza umana o incutendo reverenza e timore: si pensi alla statua di Pietro il Grande a San Pietroburgo, raffigurata nel celebre poema dello scrittore russo Puskin come un incubo che perseguita il giovane protagonista Evgenij.
Morti re ed eroi e scomparsi pure i pensatori degni di essere tramandati, la cosa si è complicata alla luce della nuova arte concettuale. Quando si cerca di commemorare ancora in modo figurativo una personalità gli esiti sono ridicoli. Indro Montanelli, che non amava l’ossequiosità, si è meritato una statua in un parco di Milano. Ma non essendo più la stagione delle celebrazioni, è stato raffigurato seduto nella posa fotografica di Fedele Toscani, che ne tramanda il lavoro di reporter, con l’Olivetti 22 sulle ginocchia e per sedia un pacco di giornali. Solo che nella reinterpretazione bronzea sembra accucciato su un water, solitario in un giardino, mentre i piccioni gli zampettano intorno nel guano.
Stessa sorte a Giovanni Paolo II, irriso da Cattelan, in modo iperbolico e iper-realistico, che lo raffigurò colpito da un meteorite, ma dileggiato in modo preterintenzionale (cosa più grave) nella statua eretta nel 2011 nelle aiuole della stazione Termini di Roma che avrebbe voluto al contrario commemorarlo nel gesto di ricevere i fedeli sotto il mantello. Un colosso di cinque metri, in ferro, cavo sulla cui sommità compare il volto neppure troppo rassomigliante di Karol Woityla, che sta a metà tra la garitta e il vespasiano. Così brutta, da scatenare tante polemiche, da costringere il Sovrintendente a chiedere a Oliviero Rainaldi (pittore d’estrazione, scultore per necessità) di rifarla con sembiante migliore: bei tempi quando Bernini scolpiva Urbano con sapiente mano.
Se invece si preferisce il contemporaneo spinto, si passa dalle rotonde che hanno invaso il paesaggio italiano e al cui centro capeggiano le opere orribili di qualche sconosciuto artista di strapaese, fino al dito medio di Cattelan alzato in segno di sfregio davanti alla Borsa di Milano.
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Per quanto riguarda le installazioni concettuali, spesso temporanee, il panorama è così ampio da rendere edibile qualsiasi stranezza e stravaganza: gigantismo di forme, giochi di luce, piccoli interventi minimalisti, uso di materiali organici e deperibili, fecalomi colorati alla Franz West. Nel 2007, a Milano l’ancor più imberbe di adesso Massimiliano Gioni, giovanissimo curatore per la Fondazione Trussardi, si inventava al parco Sempione l’opera di Pawel Althamer, un gigantesco pallone gonfiato a forma di uomo nudo, un bamboccio col pistolino penzolante (e cosa senno?), che rimase incombente sopra la testa dei milanesi per alcuni giorni.
Ma il sublime della statuaria pubblica fu l’opera One and Other (2009) di Antony Gormley, una performance che si è svolta a Trafalgar Square a Londra: per cento giorni consecutivi 2400 persone si sono alternate sul cosiddetto quarto piedistallo (vuoto e che originariamente avrebbe dovuto ospitare una statua equestre) come fossero statue viventi con l’idea – secondo l’artista – che mettendo una persona su un piedistallo “il corpo diventa una metafora, un simbolo” e che nel contesto della piazza, celebre per le sue statue militareggianti, l’elevazione della gente normale alla posizione occupata da un monumento “possa farci riflettere sulla diversità, vulnerabilità, e particolarità della individuo nella società contemporanea”. Gormley è colpevolmente ignaro lui e tutti quel che non gliel’han fatto notare degl’illustri precedenti Gilbert & George e della loro Singing sculpture del 1970 e soprattutto dell’italianissimo, futuristissimo Tato (Guglielmo Sansoni) che si espose come scultura vivente in un negozio di Bologna negli anni Venti del Novecento.
Lo arrestarono.