L’innovazione è il nuovo mito. Ma produce migliaia di disoccupati tecnologici.

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L’innovazione ha preso il posto, nell’empireo delle idee e degli ideali, di quelle che dominarono i secoli scorsi, cioè “restaurazione” e “rivoluzione“. Non si tratta più di conservare tradizioni, costumi popolari, territoriali e spirituali. Nemmeno di rovesciare gli equilibri di potere, portare gli ultimi al posto dei primi, cacciare vecchi sistemi di pensiero e di organizzazione per sostituirli con nuovi.

Si tratta di innovare, teoricamente e praticamente. La teoria la fornisce da lontano il guru dell’innovazione, Jeremy Rifkin. La pratica, molto vicina, sta nella capitale tra i giovani (e no) del governo unsacccobello. Una pornostar in auge ha chiosato che il nuovo fascismo è l’anticapitalismo. Il miglior capitalismo lo fanno i comunisti cinesi, ha spiegato il rettore di Hong Kong agli studenti in rivolta. Non dovete meravigliarvi se sono comunista ha detto il Papa ai rappresentanti dei movimenti senza diritto di rappresentanza dei non rappresentabili del mondo.

Questa è vera innovazione. Che non si limita a declamare che destra e sinistra non esistono più (cioè che borghesi conservatori e borghesi rivoluzionari sono la stessa cosa), e che sinistra e destra sono identiche (cioè che non è ammissibile basare le opinioni sulle differenze di reddito). Si cita perfino Bettino Craxi – “Il socialismo è per definizione anticapitalista” – per poter sostenere che il socialismo è fascista.

INNOVAZIONE GRASSA E AVIDA

L’innovazione, affamata anche se grassa e avida, anche se malata di gotta, va oltre a qualunque costo. L’innovazione rende più sottili le cose sottili, più larghe le cose larghe, più piccole le cose microscopiche. Non cambia il colore lo rende più colorato, non rinnova la forma, la fa più formosa, non ritocca il materiale, lo fa più immateriale. Trasformazioni infinite che non cessano e non cesseranno in un processo neverending.

Non contano, in fondo, né il risultato, né l’obiettivo, ma il processo innovativo in quanto tale che nell’immediato deve destare maraviglia e nel lungo periodo, per inerzia, aumentare i profitti anche di soli pochi centinaia di euro sui milioni di fatturato, non perché i soldi servano a qualcosa ma solo per agitare la carota davanti alle ruote della finanza.

Il nuovo Marx, il francese Thomas Piketty potrebbe apparire un rivoluzionario un restauratore delle teorie d’uguaglianza della vecchia sinistra; invece è un innovatore. L’economista nel capitalismo del XXI° secolo spiega come l’innovazione continua, nella sua rapidissima corsa, porti sempre più in alto il rendimento finanziario e sempre più in basso produzione e reddito. Le conseguenti ineguaglianze insostenibili travolgono non solo l’eguaglianza, ma anche il suo opposto, la meritocrazia. Rara dimostrazione dell’anticapitalismo del capitalismo.

Non diversamente scrive Rifkin, nel suo La Società a Costo Marginale Zero. Per lo scrittore statunitense l’innovazione tecnologica è anticapitalista e antisocialista e distrugge, dei precedenti sistemi, le piramidi gerarchiche burocratiche, vuoi statali, vuoi di partito, vuoi di classe e relative famiglie. Tra le tante slide presentate, l’innovazione mostra il sogno più antico dell’uomo, quello di eliminare dolore, fame, fatica. Comincia eliminando una delle condanne peggiori cui l’uomo, dopo la cacciata dall’Eden, è stato sottoposto, la necessità del lavoro. Rifkin racconta infatti dell’agonia del capitalismo, soffocato dall’innovazione, senza neanche soffermarsi sulla lenta morte contemporanea della socialdemocrazia che pensava, con Luciano Pellicani, di tosare il capitalismo come una pecora. Prefigura un futuro di baratto collaborativo creative common che già oggi muoverebbe 2,2 miliardi di dollari in spese di funzionamento. La progressiva fine dei cosiddetti costi marginali (do you remember Ricardo?), delle vischiosità inerziali dell’economia, del nonsense che tradizionalmente è stato per il popolo il commercio, conduce alla “società a costo marginale zero” nella quale la carota della finanza, del capitalismo e dei monopoli non smuoverà più l’asino.

La sua teoria paradisiaca (e parecchio statalista) nel lungo periodo ha purtroppo un immediato dato infernale. L’auspicata sostituzione del lavoro retribuito con attività sociali nell’immediato si traduce in delocalizzazioni lontane dall’Occidente. I consumatori produttori Prosumers, il commons collaborativo sociale e lInternet of Things nelle comunicazioni, nell’energia e nella logistica promuovono da subito una dolorosa disoccupazione tecnologica.

L’innovazione ama l’outsourcing; poco o nulla, il lavoro, Proprio all’altezza di un padrone che licenzia parimenti, per donare loro tempo libero e capacità imprenditoriali, il centralinista e il violinista. Nel caso il padrone è il sindaco Ignazio Marino, quello dell’innovazione per antonomasia. Già malgovernato in passato, mai il Campidoglio, aveva avuto il governamolo strano.

E’ un saccobelllo, bellezza.