Disastro Opera di Roma. Muti se ne va. Colpa di Marino.

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Sindacati e cda uno contro l’altro. Buchi di bilancio. 

di Giuseppe Mele

Il Teatro dell’Opera di Roma aveva evitato il precipizio. Dopo una feroce estate di lotte sindacali e politiche, Comune, sindacati, sovrintendente e lavoratori tramite referendum avevano concordato il piano industriale. Giusto in tempo prima della liquidazione coatta, richiesta dalla legge Bray, la 11213, in assenza di piano di risanamento. Tutto bene, quindi? No, per nulla. L’accordo era un passo obbligato per garantire alla Fondazione del Teatro i fondi ministeriali e il contributo da 16,5 milioni del Comune di Roma. Incassate le garanzie, polemiche e scontri non sono finite. Ed è arrivata la tegola peggiore, l’abbandono del maestro Riccardo Muti, malgrado il titolo conferitogli nel 2008 di direttore onorario a vita. Muti ha rinunciato a dirigere l’Aida, prevista in cartellone per il 27 novembre, e Le Nozze di Figaro perché non c’è la serenità «che mi è necessaria».

Leggi l’opinione di Nazzareno Carusi: il fiasco di Ignazio Marino sulla questione Muti

La notizia è un disastro d’immagine e di sostanza, dal punto di vista interno e internazionale. Riporta a galla la stagione degli scioperi delle prime dell’Heure Espagnole (annullata) a gennaio, della Bohème di luglio, degli spettacoli andati in scena con musica registrata e pianoforte, replicati gratuitamente con tante scuse, dei 1185 biglietti rimborsati per l’importo di 69 mila euro e richiesta di indennizzo per 64 mila euro agli scioperanti a titolo risarcimento dei danni. Una farsa non recitata, ma reale. Ai vertici il copione non cambia. Il sovrintendente Carlo Fuortes, come i predecessori De Martino ed Ernani, lamenta i danni della gestione precedente. Diceva Ernani, in carica dal 1999 al 2009, “Il Teatro dell’Opera di Roma, come nessun’altra fondazione lirica in Italia, può vantare 7 anni di pareggio”. Eppure nel 2002 c’era stato un rosso da un milione e duecentomila euro, e nel 2008 di 4 milioni e mezzo. Diceva De Martino, il sovrintendente divenuto direttore al personale, che era stato raggiunto per tre anni filati il pareggio di bilancio. Bruno Vespa, vicepresidente del CdA, dichiarò al Corriere nel novembre 2013: “Il 4 dicembre noi consegneremo un teatro risanato e non in bancarotta”. Seguì la denuncia di Fuortes sul buco da 10 milioni per il solo 2013. Insomma i debiti del tempio della lirica romana sono sempre colpa della gestione precedente. Sembra di sentire i sindaci che si sono successi al Campidoglio che rilevò il Teatro nel lontano 1926. Il Teatro dell’Opera si regge, come altri lirico-sinfonici, per quattro quinti sul contributo pubblico. I costi dei suoi musicisti e operatori pesano al 70% delle uscite. Per un istituto che nel 2008 riceveva dal Fus 28 milioni, i tempi grami delle attuali ristrettezze sono difficili da affrontare. Tutti ne sono consci, a cominciare dai lavoratori, in gran parte aderenti ai sindacati (Uil e Cisl) che hanno cercato di uscire dall’enpasse. Il referendum di pochi giorni fa a riguardo è stato chiarissimo: 318 votanti del Teatro dell’Opera di Roma, 285 voti favorevoli, 6 contrari al programma di Fuortes. Sono i sindacati estranei al Teatro che insistono sul programma massimo: nuove assunzioni fino ai 631 lavoratori dell’organico del Teatro, di cui 117 orchestrali (oggi solo 92). La Cgil che a luglio aveva accettato il piano Fuortes, ora ha dichiarato illegittimo il referendum e contrappone la legge Bray alla riorganizzazione voluta dal nuovo ministro Franceschini secondo la quale tutti gli organismi del Teatro andrebbero rivisti. Per parte sua il ministro capisce tutti. E’ solidale con Muti, con il sindaco Marino presidente del Teatro, con gli spettatori in sofferenza, con la Cgil, con i lavoratori, con il sovrintendente. Ha una buona parola per tutti, gatti e topi, ma nessuna decisiva. E’ facile a un primo sguardo indignarsi per gli scioperi a catena ed incolparne lavoratori e sindacati. In realtà questi ultimi, quelli veramente presenti nel Teatro sono le prime vittime della situazione. Da anni il Teatro dell’Opera viene usato nella lotta politica romana. Un fronte molto grande, molto mediatico e culturale, ne fece un tema topico per la lotta alla giunta capitolina di centrodestra. Ora quel fronte si è spaccato e gli stessi metodi vengono praticati al suo interno. E’ un pezzo di sinistra che combatte contro il sindaco di Roma, anello debole della rete dei primi cittadini in quota Matteo Renzi. Questo cortocircuito impedisce di chiedersi come la lirica nell’era digitale possa raggiungere nuovi successi di pubblico. Come si debba rimpostare la rappresentanza tramite nuove responsabilità di cogestione. Annebbia Ministero e Comune fino al punto di farli parlare con avatar “maggiormente rappresentativi” e non con le persone e le professionalità in carne ed ossa. Che per quanto si siano espresse, restano mute. Senza neanche potersene andare come può Muti.

 

> Sull’addio di Muti all’Opera di Roma leggi anche l’opinione di Angelo Crespi e l’articolo di  Nazzareno Carusi