Un festival internazionale, quello di Locarno, da seguire senza se e senza ma. Anche in momenti difficili come questo, in cui il cinema offre poco in termini di quantità e qualità, Carlo Chatrian, da due edizioni direttore dopo l’ottimo Olivier Père, sa offrire un programma completo e interessante. E soprattutto, come nella tradizione della rassegna ticinese, alla sua 67ima edizione, percorre temi di spessore, con visioni coraggiose e difficili.
Partiamo dalla proposta italiana Fuori Concorso, Sul Vulcano. Gianfranco Pannone, da sempre un «combattente» del documentario, ha deciso con un bel film di raccontare quella sensazione di poetica, fatalistica rassegnazione di chi, fisicamente e metaforicamente, vive alle pendici del Vesuvio. Lo fa con testi d’epoca, di grande impatto, proposti con voci importanti, da Roberto De Francesco a Toni Servillo che legge Giordano Bruno. E da molti altri attori che compongono il puzzle partenopeo di un universo che non ha paura della «montagna», perché ci sono pericoli piú imminenti e potenti da combattere: ad esempio l’altro vulcano, una discarica, e un dissesto sociale e umano inesorabile come la lava di quel mostro buono che ormai è il simbolo della terribile bellezza di una città unica. Dormiente, abissale e pericolosa, come quel cratere. Non c’è, in Pannone, alcuna accondiscendenza, ma solo lo sguardo attento, (po)etico, profondo ed eclettico di un cineasta coraggioso. Verso il simbolo di un paese, come dice lui «la ferita aperta d’Italia».
Pieno di coraggio è il film Hin und weg (Tour de Force) di Christian Zübert. Al centro sembra esserci il tema dell’eutanasia, ma in verità c’è molto di piú. Un gruppo di amici partono per la loro biciclettata annuale, un appuntamento fisso in cui riannodano i fili delle loro vite e mantengono un rapporto speciale, quello delle loro due ruote e delle loro esistenze. Italia, Grecia, le loro mete sono sempre improntate alla curiosità, alla bellezza, a un tempo che porti alla gioia.
Ecco perché quando Hannes comunica loro che quest’anno la scelta è caduta sul Belgio, sono disorientati. Il maltempo, il luogo che, ingiustamente, non colpisce il loro immaginario, l’assenza di facili divertimenti: tutti si sentono insoddisfatti della meta. Ma il protagonista, con brutale dolcezza, comunica loro che la meta sarà definitiva. Ha una malattia degenerativa e questa gita sarà l’ultima. Alla fine della loro solita settimana insieme, infatti, sceglierà la dolce morte in uno dei pochi paesi che la permette. Il regista, a questo punto, vira su una commedia corale improntata alla gioia di vivere, agli eccessi, all’amicizia che esplode in goliardia. Risponde al dolore con la forza di un sodalizio che porterà tutti a sette giorni «da leoni». Una visione coraggiosa di un tema complesso e difficile, che decide di squadernare i pregiudizi per entrare nell’anima, nelle contraddizioni, nelle emozioni piú profonde di adulti che si scoprono fragili.
In questo senso affascina anche l’ottimo Á la vie di Jean-Jacques Zilbermann, curiosamente, usa lo stesso espediente narrativo del collega, una rimpatriata. Tra tre donne, nel mare degli anni ’60, colorato di costumi audaci e di una bellezza femminile non piú nascosta. Le tre non si vedono da 15 anni. Erano sodali e amiche in un luogo decisamente meno ameno: Auschwitz. Anche qui la vita è piú forte della morte, anche qui le situazioni piú scabrose – i ricordi di decisioni atroci prese per sopravvivere, le cicatrici rimaste, sul fisico e nel cuore – cercano una levità insospettabile ed efficace, a dimostrazione che i tabú non vanno infranti con violenza, ma con delicatezza e sí, persino con umorismo.
Non è la strada, peró, di Dancing Arabs, come gli altri due lungometraggi programmato in Piazza Grande, quindi nella piú visibile e popolari delle sezioni. Qui la struttura è quella del dramma, del romanzo di formazione, per raccontare, in momenti come questi, la struggente lacerazione di una terra e di un popolo. Tutto si concentra sul giovane Eyad, figura esemplare scelta dal regista Eran Riklis (giá autore de La sposa siriana e de Il giardino di limoni) per raccontare il rapporto tra israeliani e arabi. Proprio attraverso un giovane arabo-israeliano alla ricerca disperata di un’identità. Anche qui la leggerezza arriva a sorpresa: Eyad piccolo che vuole credere che suo padre sia un terrorista o lui, cresciuto, che fa svuotare la mensa dell’illustre scuola israeliana a cui è stato ammesso perché si mette a vendere prodotti tipici della sua cucina ai compagni ebrei, sono momenti di ottima commedia. Cosí come la storia d’amore con una coetanea israeliana (Naomi, Daniel Kitsis) emoziona, travolge e infine trova una strada inaspettata e affatto prevedibile. La cosa piú interessante è, peró, la volontà di raccontare qualcosa di diverso dagli schematismi a cui siamo abituati. Eyad, infatti, sceglierà se stesso contro ogni identitarismo. Letteralmente si staccherà dal passato e dal presente per un futuro che ripudi sia la sua parte araba che quella israeliana. Cambierà nome, paese e visione del mondo, con una scelta rivoluzionaria, rifiutando la terra e le culture per cui, da decenni, si combattono crudelmente due popoli. La rifiuterà, semplicemente cercando altro. Schiaffeggiando, cosí, ció per cui una guerra infinita, ideologica e identitaria fa vittime continuamente. Non ne vale la pena, sembra dire ai suoi coetanei. Scegliete il vostro futuro, non la meschinità racchiusa in confini geografici e politici.
Chiudiamo, infine, con Love Island, di Jasmila Zbanic. Una grande regista, già Orso d’Oro, qui porta un’opera, sempre sullo schermo piú grande d’Europa, totalmente diversa dal suo cinema tragico e profondo. Una commedia sentimentale in cui l’identità sessuale è fluida, liquida come lo splendido mare a cui affaccia il suo resort. La meravigliosa Ariane Labed è il vertice di un triangolo che potrebbe persino diventare un quadrato. Geometria dei sensi e dei sessi spiegata con il sorriso incantevole e sexy di questa attrice con tante identità (è francese, è nata in Grecia, recita anche in tedesco e in inglese) e quello piú bovino ma altrettanto irresistibile del Borat bosniaco Ermin Bravo.
Locarno è questo: tante domande e nessuna risposta preconfezionata. In una parola, il cinema. Quel cinema che sa e vuole prendere a calci in culo conformisti, convenzioni e ottuse convinzioni.