Maria Antonietta: la dannata ingenua del rock italiano

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Tornano le rriot girrls tendenza Consoli

di Grazia Sambruna

Canta, urla, miagola, vaneggia. In una parola, divide. Si chiama Maria Antonietta, ma alle brioche preferisce il pane, possibilmente duro da masticare. Duro come le ossa. Le “Ossa” del singolo che lancia il suo secondo disco, “Sassi”. Sulla cover troneggia lei, non come la regina di Francia, ma più simile al boia arrivato in ritardo al patibolo. Senza aver avuto il tempo di pettinarsi e con l’aria di chi non l’avrebbe fatto comunque, per professione. La faccia dice questo, la voce strepita di quanto sarebbe bello “essere Gesù per riportare in vita i morti. Ma riportarne molto pochi”. È una ragazza minuta, Letizia Cesarini in arte Maria Antonietta, 27 anni scarsi e 28 minuti di disco che ti fanno venire voglia di fumare una sigaretta con lei durante una serata di pioggia. Per gravitare insieme nell’”Ombra delle sue Galassie” o, più semplicemente, rovesciarle addosso il tuo cocktail. Prima che lo faccia lei.

È una ragazza arrabbiata, Maria Antonietta. In preda a quelle disperazioni dell’eternità di pochi giorni che dipinge esattamente come sono. Con il ritmo della melodia che cambia a seconda dei singhiozzi e dei sussulti di rabbia a sconquassare lo stomaco dall’interno. “Abbracci”, “Tra tutte me e tutte le cose”, “Giardino Comunale”. Di traccia in traccia, si tirano le somme, si fa una media. Mediamente isterica. Quasi come solo la cantantessa catanese che di nome fa Carmen e di cognome Consoli seppe esserlo, nel lontano 1998. “Io non starò lì a guardarti fino a consumarmi gli occhi”, canta Maria Antonietta. Ma tu “Besame Giuda”, le fa eco Carmen. Entrambe dannate ingenue per vocazione musicale. E mentre la cantantessa è in pausa maternità, il peso della sua assenza sta sulle spalle di una ragazza minuta e arrabbiata, che nel video del suo secondo singolo, “Giardino Comunale”, si mostra con un telefono a disco come fosse davvero il 1998. E chissà cosa sognava allora colei che, qualche anno più tardi, si sarebbe lanciata in una cover distorta di “Non ho l’età”, il successo sanremese di Gigliola Cinquetti.

Ma non tutte le cantantesse si arrabbiano allo stesso modo. Il fine, però, resta sempre la distruzione, e c’è chi sulla distruzione ha fatto un disco, di più, un “Manuale Distruzione”. Costei si chiama Claudia Lagona, in arte Levante, e l’insofferenza che prova ce l’ha cantata, con il dovuto sarcasmo, nel ritornello-tormentone: “Che vita di merda!” della sua “Alfonso”. Se la paragoni a Carmen, ti risponde: “È un po’ come quando dicono che somiglio a mia madre e io sorrido pensando che non sia così”. Però l’ha sempre ascoltata, aggiunge, e non esclude che la sua vena artistica sia stata plasmata, nel tempo, dall’arte della cantantessa. Levante e Maria Antonietta, due bambine impertinenti. Una ride per distruggere, l’altra piange sulle sue stesse macerie. Parole, le loro, che hanno bisogno più dell’assenza che della presenza di un vanesio Narciso, per essere quello che sono: arrabbiate, sarcastiche, confuse e, un giorno forse, felici.