L’ultimo genere musicale che crede nel futuro.
di Simonetta Sciandivasci
Il rock è morto, viva il rap. I maudit non hanno retto alla crisi: sono rimasti, invertebrati e tossici, a rimpiangere il bel tempo andato, scatarrando sui giovani d’oggi – come cantava Manuel Agnelli 16 anni fa. E mentre gli emo si estinguono e gli hipster evangelizzano l’ukulele, l’hip hop vince nelle classifiche. Chi crede che il merito sia delle abilità di Fabri Fibra in fatto di marketing, ha il dovere di ascoltare “Radici”, l’ultimo disco di Kento & The Vodoo Brothers, per capire il senso del rap e vedere quanto esso combaci con il senso delle parole. Tutti gli altri devono ascoltarlo perché è una felice poligamia di R&B, soul, blues e hip hop: una goduria per qualsiasi orecchio. E perché è mastodontico, innamorato e serio, come il suo autore, che viene dalle Posse, quelle che negli Anni ‘90 convogliavano i musicisti dotati del coraggio politico delle posizioni e che per rabbia non intendevano disillusione, bensì reattività e impegno.
Francesco Kento Carlo viene da Reggio Calabria, ha 38 anni, suona da quando ne aveva 20 ed era uno studente fuorisede non rammollito dalla Grande Bellezza romana, perché forte di quella dello Ionio. È diventato un campione, ha sfornato 9 dischi scrivendoli sui taccuini, come fanno i poeti. Quando ha iniziato, il rap in Italia era un fenomeno di quartiere. Adesso è diventato il solo genere capace di far ballare su significati precisi, che a volte sono populismi retorici, altre sono ideali e criteri. C’era bisogno di raccontare la storia di questo passaggio, trasformandola non in un sussidiario, ma in una testimonianza. E lui lo ha fatto. Questo è “Radici”: l’esegesi di un genere, la risposta a una necessità di chiarezza, la mappatura di un’identità non barattabile.
Lezione numero uno: il rap “nasce in America, ma non è dell’America”. I comandamenti per suonarlo: amare la musica e prenderla sul serio anche se non dà da vivere; studiare le parole; conoscere il passato, rispettarlo e poi mandarlo in pensione. “Contesta ogni elemento, anche il rap di Kento”, canta Francesco in “mp38”, dichiarando di rivolgersi a “chi inizia a scrivere”. Non si tratta di un testamento e nemmeno di un monito: è l’insegnamento di ruolo. Il rap, a differenza del rock, crede nel suo futuro, vuole fare scuola. Crede nei giovani, non ci scatarra su e non li intende come ventenni, ma come audaci esploratori, disposti a prendere appunti e capaci, poi, di metterli da parte. Come si fa con le radici.
© photo Federico Chiesa