Donne, sessualità, religione…

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Per l’illustratrice romana gli uomini sono alberi, le donne sono fiori.

di Clelia Patella

Zoe Lacchei, illustratrice romana: nomen omen. Si potrebbe ribattere sostenendo che, semplicemente, chiunque viva abbia a che fare con la vita, ma nel caso della Lacchei la vita stessa – e con essa il suo opposto, ovvero la morte, e le sue più intense manifestazioni, ovvero l’eros e la religione – diventano il centro di un discorso espressivo ed esistenziale ancor più che di un semplice immaginario.

Racconta Zoe che l’evento più importante della sua vita fu, da bambina, l’aver trovato la carcassa di un animale mentre giocava. Questo fatto, che la impressionò molto, la portò a porsi una serie di domande, e ad iniziare molto presto a dover convivere con il concetto che siamo mortali. E che, dopo la vita, la morte è quanto di più potente esista. Con la morte, va da sè, si rafforza il legame con la vita e con le più “vitali” tra le umane espressioni e manifestazioni, come sono l’erotismo e le sue sfaccettature; e l’indagine sull’erotismo porta necessariamente a quella sui tabù, e ad essi – soprattutto in occidente – è fortemente legata la tematica religiosa. Ecco perché, come accennato prima, il lavoro dell’artista ruota attorno ai concetti di morte, vita, sessualità e religione. Questo da sempre, da quando – nel 2004realizza tredici quadri per il disco di Marilyn Manson “Golden Age Of Grotesque”, attraverso i progetti “Beauties & Beasts”, “Geisha”, “Sketches Of A Dangerous Mind”, fino al suo ultimo lavoro, ovvero un omaggio allo scrittore giapponese Yukio Mishima.

Ed è certamente Mishima il massimo punto di riferimento per l’artista. Con lo scrittore giapponese – morto tramite suicidio rituale a 45 anni nel 1970 – molti sono i punti di contatto: l’ossessione per la morte ma al contempo per la vita (“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”, scrisse l’autore su un bigliettino poco prima di commettere seppuku), nonché quella per l’estetica. E la stessa Lacchei afferma: “È stato molto duro per me lavorare per quasi cinque mesi al Tributo a Mishima proprio mentre vivevo un periodo estremamente drammatico della mia vita. Non ho commesso alcun seppuku, ma non nascondo che l’idea di autoeliminarmi a 45 anni la accarezzo da sempre. Il decadimento – più che la vecchiaia – mi atterrisce; credo che la vita vada vissuta con grande passione ma anche con grande estetica, e che non ci sia cosa peggiore che perderle entrambe. Certo, per gli uomini è diverso, ma è stato un problema anche per Mishima che aveva uno sguardo molto femminile sul mondo. Però gli uomini diventano alberi, acquistano fascino; le donne sono fiori, appassiscono.

E sono proprio le donne, anzi, le sue muse, al centro delle opere di Zoe. Donne reali, di cui l’artista si innamora e nei confronti delle quali sviluppa una vera e propria ossessione; e che ritrae, ognuna a seconda dello stato d’animo che racconta: una bellezza malata, una sessualità inquieta e vagamente torbida, la mantide, algida e predatrice, l’elfa. E nell’ossessione dell’artista, ognuna di esse è qualcosa che lei vorrebbe essere; fatto evidenziato dalla somiglianza che tutti i ritratti hanno con il reale soggetto, ma anche con l’artista stessa, come si trattasse di una sorta di autoritratto di un sé desiderato.

Accanto alle donne, la Lacchei pone sempre una serie di simboli, spesso dall’aspetto inquietante, con l’intento di attrarre l’osservatore in modo da potergli poi rivelare la contraddizione celata dietro a un certo tipo di estetica. Gli animali – ad esempio – elemento assai ricorrente accanto alle fanciulle, sono generalmente quel genere di bestie che si tenderebbe a evitare. Ma la figura negativa nelle illustrazioni è sempre la donna: l’animale diviene in pratica la chiave per vedere l’inganno spesso celato dalle sovrastrutture che vorrebbero imporre come negativo ciò che non lo è, e viceversa.

L’opera di Zoe Lacchei non ha tracce del suo dichiarato amore per la vita. D’altronde, quando un artista dipinge, sceglie se occuparsi di cose gradevoli, o di speranza, o di compiere analisi estetiche, sociali o intellettuali; altrimenti, può affrontare le sue più grandi paure e tormenti – senza per questo necessariamente essere un cosiddetto “artista tormentato”, anzi – magari nel tentativo di esorcizzarli. Ed il tormento della Lacchei non è romantico, ma è qualcosa che affatica. Per questo ogni suo lavoro è per lei faticoso da approcciare perché fa male, o perché la disturba. Nella speranza che riesca a disturbare anche gli altri.