C’era una volta…una spa: il declino di Cinecittà

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“Cinecittà sta per scomparire. E con essa il più grande patrimonio di cultura dell’immaginario che il nostro Paese abbia prodotto.” Sostiene Enzo De Camillis, regista del cortometraggio “Un intellettuale a Monteverde”, dedicato a Pier Paolo Pasolini, il grande poeta e regista, i cui film, da Accattone a Edipo Re, furono tutti prodotti dal mitico Alfredo Bini, il “produttore di area Msi” che produceva il miglior Cinema di quegli anni. Da “Il bell’Antonio”, di Bolognini, a Lancillotto e Ginevra, di Robert Bresson. “Nei piani dell’attuale proprietà, c’è la trasformazione dell’intera area in centro benessere, hotel e parcheggio con 6.000 posti auto” rincara De Camillis.

Una cosa è certa: se così fosse, e lo confermano le decine di manifestazioni di protesta dei lavoratori del settore, sarebbe la prova provata del fallimento dell’interazione fra pubblico e privato nella gestione dello sconfinato patrimonio artistico e culturale dell’Italia.

Una sconfitta di cui, quotidianamente, pagano le conseguenze le migliaia di addetti ai lavori lasciati senza occupazione. Speranze per il futuro? Meglio preghiere, direi. Di questi tempi, e con due papi in Vaticano, magari fruttano di più. Eppure…

… Entrai per la prima volta negli stabilimenti di Cinecittà da autore dei testi e protagonista di alcune telepromozioni per un noto programma televisivo. Mi sentivo una nullità. Ero convinto che stessi mortificando un luogo che avevo nel cuore per ben altre produzioni artistiche. E, camminando per i viali, respiravo senso di colpa e splendori del passato. Un’anziana signora (qualcuno mi disse che dormiva in un magazzino all’interno degli stabilimenti) mi volle fare un po’ da cicerone. Le porsi, timidamente, del denaro. Rifiutò, ma mi portò al bar, e si fece offrire una ricca colazione. Capii che non aveva bisogno di soldi, protetta com’era all’interno di quella enorme “casa”: le bastava poterci vivere e morire dentro. Era una delle storiche Comparse del Grande Cinema italiano. Quello di Fellini, De Sica, Rossellini. E Cinecittà era una sorta di caldo riparo dall’esterno freddo e poco accogliente.
Sul set di “Roma”, tra case romane e palazzi imperiali, fui Cesare per una nota marca di orologi. Piansi, quando le telecamere si accesero puntate su di me.

Cinecittà nacque, per volere del Duce, nel 1937 su un’area di 500.000 mq di proprietà dell’aristocrazia romana in località Cecafumo. Da discarica per i rifiuti di Roma, a cuore del sogno cinematografico. Già dall’anno della fondazione, la produzione cinematografica fu copiosa. Venti, trenta, fino a cinquanta film all’anno. Fino a superare quota 3.000. Fino ad arrivare a 90 candidature all’Oscar, per portarne a casa ben 47, di quelle statuette dorate.
Negli anni 50, Cinecittà divenne la Hollywood sul Tevere.
Le grandi produzioni americane si trasferirono a Roma. A prescindere dai magistrali registi e dai bravissimi attori, furono le nostre maestranze a diventare le più ambite. Quelle “che ti risolvono il problema con genialità e senza fare storie”. Dietro ogni “effetto speciale” dei colossal mondiali, c’era una squadra di volenterosi italiani che ci lavorava “a mani nude”. Cinecittà!

Sì. Tutto questo e molto altro era Cinecittà. Per Fellini, casa e bottega. I suoi film nacquero in quello storico Teatro 5. Lì dentro, il Maestro volle anche il mare del “Rex”: grandi teloni bianchi, una macchina del vento, carta stagnola increspata, plastica e spruzzi d’acqua. E il transatlantico, un dipinto su un cartellone, con dei fari puntati dietro, per simulare le luci degli oblò. Per il cielo, un grande dipinto e il tramonto ottenuto coi riflettori. Genialità italiana. Cinecittà!

Visconti ci girò Bellissima, con una Magnani da starci male per tutta la vita, tanto fu brava. Scorsese, decenni dopo, scelse gli stabilimenti per Gangs of New York. Mel Gibson, per La passione di Cristo.
Poi… Uomini e donne, di Maria de Filippi; L’imbroglione, di Enrico Papi, I Cesaroni, Grande Fratello… Il declino.