“Ricordare la nostra vita” attraverso gli scatti del fotografo documentarista in cerca sempre della verità.
di Sarah Palermo
Gianfranco Gallucci (1981) fotografo documentarista, principalmente coinvolto in progetti incentrati sul rapporto tra paesaggio e i fenomeni che avvengono in essa, racconta per ilgiornale OFF come ha iniziato il suo lavoro che lo ha condotto ad una ricerca sempre più intima e riflessiva.
“Ho iniziato a fotografare, tra il 2003 e il 2004, una decina d’anni fa, mentre ero uno studente di architettura a Ferrara. Rintracciare una data esatta in questi casi è spesso difficile se non impossibile e alquanto inutile probabilmente, ma mi piace pensare ad un evento che ha scatenato in me il germe di questa “dipendenza”, che ormai è diventata parte della mia vita, influenzandola e venendone a sua volta influenzata.
Passai un’intera notte d’inverno alla finestra della cucina di casa, fumando e ascoltando Tabula Rasa di Arvo Part, in una sorta di stato di trance e fotografando con una delle prime macchine digitali, il paesaggio al di fuori, alterato da una rara nevicata. Non erano certo le foto che ne sono uscite, né probabilmente il paesaggio ritratto, ma l’intensità dell’esperienza vissuta che mi fecero sentire l’entusiasmo di raccontare quello che stavo vivendo in quel momento riproducendolo in immagini, attraverso la “descrizione” di quanto avevo davanti a me.
Mi piace pensare a questo come ad un piccolo evento, narrativo e probabilmente non così rilevante ai fini della mia formazione fotografica successiva, ma pur sempre un inizio, quasi astratto, grezzo. La cosa interessante è che, col senno di poi, ti rendi conto di come, molto di più, ti abbia portato li a quella notte insignificante tutto il tuo background, per poi iniziare realmente ad avvicinarsi alla fotografia. E penso quindi all’insegnamento ricevuto dal cinema, da certi film di registi come Wenders, Antonioni, Tarkovsky e molti altri, che allora vedevo ripetutamente o dal potere immaginifico generato dalle letture di certi romanzi o dagli stessi studi in Architettura che mi hanno portato a comprendere che mi interessava di più raccontare piuttosto che progettare, attraverso le immagini.
Attualmente a volte mi capita di pensare che se sapessi scrivere probabilmente userei le parole per raccontare e non le immagini, sperando sempre di esserne comunque capace.
La fotografia è un linguaggio come un altro, un vero e proprio linguaggio, con una sua grammatica, sintassi e anima. E tu scegli di dire qualcosa attraverso di esso, di raccontare qualcosa, di aggiungere qualcosa a questo mondo, “forse già troppo pieno”. Penso alle decine di grandi autori, ai veri testimoni del nostro tempo, a persone che hanno alle spalle decine e decine di anni di esperienza e penso ai miei primi dieci anni e faccio un bilancio di quello che ho fatto, di quel’è stato il mio rapporto con la fotografia fino ad oggi e cerco di guardarmi indietro e collegare i punti (se ce ne sono) per poi continuare nella giusta direzione srotolando davanti a me, sul mio cammino, una consapevolezza più profonda per trovare la ragione per continuare a fotografare a patto di avere qualcosa da dire, ritagliandoti il tuo spazio nella “scena”, già ampiamente calpestata da tanti autori, forse troppi, dove finiamo forse a volte col dire cose banali, cose già dette, già viste, in nome di una piccola visibilità, per vivere, magari più volte,quei fittizzi e illusori 15min. di celebrità, tanto decantati da Warhol, e che forse nella società di oggi sembrano aver perso valore. A volte mi chiedo quale sia oggi il ruolo della fotografia, nel mio caso della fotografia documentaristica o di “giornalismo/narrativa”, forse anche solo della fotografia. Mi capita di non riuscire a darmi una risposta, mi ritrovo a cercare una sua qualche utilità, ma poi penso che il ruolo ultimo (e che probabilmente non verrà mai sostituito da nessun altro mezzo…internet, media “corrotti”, televisioni, etc.), sia quello di “ricordare” e penso che ci servirà sempre ricordare, perché la velocità entropica della società del futuro conduce all’oblio e a dimenticare con estrema facilità. Ovviamente col termine “ricordare” intendo tante cose al suo interno, ovviamente quello del racconto, della testimonianza, della denuncia, del vero riportare onestamente, etc. ma anche il semplice ricordare la nostra vita, i momenti belli e anche quelli brutti magari, le foto quotidiane che scattano tutti (ormai coi telefonini…).
Ripensare quindi al mio ruolo di “fotografo”? Alla luce di questo non è facile, ma trovo interessante riflettere su questa condizione, penso che dovremmo farlo tutti, ripensare al nostro ruolo di narratori, mossi da un’etica, da una reale abnegazione verso quello che decidiamo di raccontare. E allora per farlo, in modo diverso dalla rapidità imperante, anche di fruizione, dell’immagine stessa, dovremmo tirare il freno a mano, scendere dalla macchina e “camminare”, immersi, producendo “racconti per immagini” che permettano alle persone che li “leggono” di porsi delle domande e di darsi eventualmente anche delle risposte, che magari si tramutino in azioni costruttive.
Vorrei che la mia “fotografia” fosse in qualche modo utile a qualcuno o qualcosa, altrimenti non avrebbe senso premere l’otturatore, in nome di cosa? Di chi? Oggi come oggi non credo proprio che lo sia, ma mi piace pensare che non solo il mio lavoro, ma quello di molti altri fotografi possa davvero essere ancora utile in qualche modo, anche se suona un po’ utopistico e ridicolo. Non bisogna mai smettere di crederci, altrimenti è meglio andare a fare altro.
Ho scelto di lavorare in modo indiretto, spesso “servendomi” dei luoghi, per raccontare tutto ciò che “contengono” e del quale spesso si trovano ad esserne testimoni, perché così obblighi le persone a fermarsi un attimo di più e a chiedersi dei perché. In un mondo in cui le immagini ti sbattono in faccia porzioni di realtà spesso demistificata, spettacolarizzata, l’immagine stessa perde valore e il suo contenuto si annulla e allora non sono più fotografie, perché non ti portano niente e tu non ricordi niente di quella realtà.
Allora, provare, a raccontare le cose in questo modo, probabilmente preclude una certa fetta di stampa, ma permette anche di mantenere un’etica nel modo di raccontare le cose, per me stesso, e di riuscire forse un giorno a dire qualcosa in più o di nuovo, un punto di vista diverso che ci obblighi ad avvicinarci alla realtà che stiamo osservando. Fortunatamente non sono il solo a lavorare seguendo questa modalità “indiretta” o più lenta, e credo che sia la strada da percorrere per la fotografia di oggi.”
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