Dal 14 settembre al primo dicembre 2024 la Fondazione Luigi Rovati di Milano ospita la mostra Fotografia imperfetta dentro il fragile vivere. Una carrellata di sguardi e di 11 ritratti fotografici realizzati da Maurizio Galimberti. Protagonisti alcuni dei 64 residenti del Paese Ritrovato, il villaggio per la malattia di Alzheimer, progettato e realizzato dalla Cooperativa La Meridiana di Monza. “Una imperfezione che emoziona. E questo è un po’ il senso della vita che è meravigliosa, fragile e imperfetta nello stesso tempo” – racconta con la sua voce profonda Galimberti, comasco, classe 1956, famoso r per i suoi ritratti alle celebrità del cinema, dello sport, della cultura, della società con la sua Polaroid (la consacrazione mondiale arriva nel 2003, quando il suo ritratto di Johnny Depp viene pubblicato sul “Times Magazine”). Acosta la macchina al viso come se dovesse eseguire una radiografia. Dopodiché scatta. Ne fa una matrice e con un gesto cubista la scompone, la altera, la moltiplica, la modifica. Una tecnica che inizialmente adatta ai ritratti, in seguito, riconduce la sua tecnica anche nella fotografia dei paesaggi, delle architetture e delle città.
Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a sostenere questa iniziativa solidale del Paese ritrovato?
“La mia storia personale mi ha sempre spinto a fare del bene. Fino ai 5 anni ho vissuto in istituto, perché mia madre diciassettenne, quando mi partorì, mi abbandonò all’ospedale di Como. Sono stato portato via dall’orfanotrofio e adottato da Eleonora e Giorgio Galimberti, i miei genitori. Insomma, il primo gesto di solidarietà della mia vita l’ho visto molto presto. Da qui l’importanza di iniziative come questa della Fondazione Rovati e della cooperativa La Meridiana , che riescono a fare luce sulle diverse sfumature della malattia. .Avevo fotografato malati di Alzheimer nel 2001, allora però avevo quarantaquattro anni, ora mi sono confrontato con coetanei. E’ stata la campagna del 5×1000 l’occasione per avvicinare alle realtà di cura de La Meridiana”.
Quali sono stati i criteri nella scelta dei soggetti fotografati per questa mostra?
“Ho scelto in base alla liberatoria dei familiari. Non ho mai voluto fare casting , lo trovo svilente, per i ricordi della mia infanzia, quando ero in orfanatrofio ci mettevano infila per farci scegliere dalle copie che volevano adottare un bambino” .
Come si fotografano le persone affette da questa patologia che provoca un grave e progressivo deterioramento cognitivo?
La bellezza e l’amore devono essere sempre tutelati, soprattutto nel tempo della fragilità e della malattia. Ho fotografato i soggetti con molto rispetto. E molto velocemente, davanti a una grandissima lavagna nera, che simboleggia forse un po’ anche il buio di quelle esistenze travolte dal decadimento cognitivo e dalla perdita della memoria”. Un clic come una carezza, ricomponendo i pezzi delle loro vite frammentate e scompaginate dalla malattia. “Non è pensabile che la fotografia sia accademica. Sono foto estremamente naturali, senza artifici. Volevo raccontare le persone nella loro immediatezza e spontaneità. Ciascuno con il suo passato tenuto stretto stretto da qualche parte, anche se è difficile trovarlo. Quando fotografo cerco la bellezza piu profonda, l’uomo, con la sua vita, le sue sofferenze, la sua positività. In questo caso la bellezza è la forza nascosta nella fragilità di queste donne e di questi uomini” .
Cosa è per lei la fotografia?
“La fotografia è la mia vita. Mi definisco un mangiatore di fotografie. Soddisfa quasi il mio bisogno “fisico” di interagire e di impossessarmi della realtà, di quello che mi circonda…e gli restituisco una vita nuova, . Mi piace paragonarmi a un musicista: con la fotografia suono lo spazio e il mosaico è il mio spartito. Suono lo spazio cercando la perfezione e l’armonia dei singoli elementi, delle linee, dei pieni e dei vuoti, dall’inizio alla fine seguendo il mio ritmo. Cerco l’emozione in ogni singolo frammento”.
Il suo primo scatto?
“Avevo nove, forse dieci anni e, con la mia famiglia, andavamo a pranzo alla domenica in un ristorante in Brianza vicino a Erba. Avevo una macchinetta semplice, una AGFA Optima che scattava in 24×36: la mia prima fotografia è stata ai parenti a tavola in quel ristorante.
Qual è stato il momento in cui ha capito che sarebbe diventata la sua professione?
“Sono un geometra mancato e appena diplomato affiancavo mio padre nella sua impresa edile. Andando nei cantieri con lui, osservavo i palazzi avvolti nelle strutture d’acciaio dei ponteggi e mentalmente, , ma ero insoddisfatto, deconcentrato, sentivo il sacro fuoco della fotografia. Anziché contare i livelli dei ponteggi, scattavo fotografie e scomponevo bene l’immagine che avevo davanti. . Partecipavo a tanti concorsi e li vincevo talvolta con il mio nome altre con quello di mia mamma Eleonora Vaghi. Passo nel 1983 alla Polaroid . Il primo ritratto lo feci a mio figlio con una scatola chiamata collector. Poi Alan Fidler della Polaroid di Boston mi mise a disposizione una scatola bianca, la luce invece di concentrarsi si diffondeva donando alle immagini un effetto molto bello”.
Perché la Polaroid?
“Cominciai a usare solo le Polaroid, anche perché può vedere subito il risultato dello scatto senza aspettare lo sviluppo della pellicola e soffrendo di claustrofobia e a con la paura del buio non amava stare al buio nella camera oscura. La Polaroid è per me un mezzo straordinario, mi fa stare bene, non ho bisogno di altro per scattare. Con la Polaroid diventa possibile la presa diretta, istantanea di un attimo di realtà percepita. Lavoro con lo spirito della “zanzara pungente” caro a Henri Cartier-Bresson. .Ma al di là delle tecniche che sperimento, alla base di ogni foto c’è sempre uno stato d’animo, una situazione mentale, una sensazione e una situazione che determina un tipo di lavoro piuttosto che un altro. E poi manipolo. Solo manualmente, non ho mai sperimentato e utilizzato la fotografia digitale”.
Un tratto distintivo della sua produzione artistica è la tecnica a mosaico .Frammenta l’immagine istantanea in una moltitudine di fotogrammi generati da essa, conferendo movimento e nuova emozione alla staticità della fotografia di partenza, fino a crearne un ritratto fatto di tanti tasselli differenti tra loro.
“Penso spesso a questa mia particolare predisposizione a vedere per griglie, come se il mondo fosse un enorme mosaico, e sono convinto che il mio modo attuale di fotografare risale agli anni passati in quel brefotrofio , le finestre avevano le inferriate e per 5 anni mi trovavo spesso a guardare dalle grate della finestra il cielo che si riduceva in mosaico”.