Una società che non ascolta La cantatrice calva

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Alla Casa delle Culture di Roma convince lo spettacolo della Compagnia Ginepro Nannelli.

di Laura Mancini

La Compagnia Ginepro Nannelli affronta La cantatrice calva di Ionesco, datata 1950, dimostrandone ancora una volta l’incredibile attualità. In un’azione statica o pressoché inesistente, rispettata dalla regia di Marco Carlaccini, le due famiglie Smith e Martin – dai cognomi volutamente insignificanti – simboleggiate dai rispettivi coniugi (ai figli si accenna solo in termini generici e generalizzanti), con le loro conversazioni basate su frasi formali, su banalità legate al cibo, luoghi comuni intervallati da silenzi imbarazzanti, rappresentano la parodia di una società che pur non sapendo ascoltare, ha il terrore della non-comunicazione e nasconde, in realtà, una sostanziale incapacità di dialogare.

I tratti caratteriali dei personaggi sono sfumati ed interscambiabili; gli attori sono amorfi e messi nelle condizioni di interpretare tanto i protagonisti quanto i mobili del salotto: nell’originale visione della costumista Antonella D’Orsi Massimo, infatti, alle maniche degli abiti di scena sono cuciti i braccioli delle poltrone (assenti nella scenografia) e questo fa si che gli attori, quando sono seduti, devono compiere lo sforzo di mantenere una certa posizione delle braccia in assenza di un appoggio. Così le due strampalate coppie dai colori sgargianti, il pompiere e la cameriera sado/horror si intrattengono in un ambigua e dissonante disarticolazione del linguaggio.Convince molto la Compagnia: Claudio Capecelatro, Marco Carlaccini, Patrizia D’Orsi, Xhilda Lapardhaja, Ludovico Nolfi e Sara Poledrelli. La loro interpretazione risulta efficace, ritmata e ricca di personalità; non cade mai nella comodità della maschera nonostante il trucco drammatizzato. La regia, nell’incedere del tempo irregolare, scandito dall’inquietante orologio luminoso che campeggia sullo sfondo della scena, fa danzare gli attori in un balletto ridicolo fatto di accavallamenti di gambe e di variazioni della postura sulle sedie che restituisce all’anti-commedia quel senso di insofferenza dei personaggi tanto caro al maestro del teatro dell’assurdo.