
Jan Fabre, una delle figure più innovative nel panorama artistico internazionale, la chiama affettuosamente Lady from Avellino. Irene Urciuoli, nata ad Avellino nel 1992, attrice, cantante, da sei anni performer stabile nella compagnia di Fabre è la nuova musa del teatro del celebre artista belga (Anversa, 1958) che ha rivoluzionato le arti performative. Ed è anche insegnante e fa parte del Jan Fabre Teaching Group che forma le nuove generazioni di artisti performer secondo il metodo di lavoro di Fabre. Una vera guerriera della bellezza. La talentuosa Urciuoli (e che lei sia una grande artista lo scrive anche il New York Time) ha folgorato tutti (pubblico e critica) nell’ambito del Festival che il Teatro Out OFF di Milano ha dedicato al maestro belga, con un’opera solista appositamente creata per lei da Jan Fabre, Simona, the Gangster of Art, in prima nazionale , monologo provocatorio, irriverente, ironico già andata in scena con grande successo ad Anversa. Protagonista anche di Io sono un errore andato in scena sempre al Teatro off in prima mondiale e a novembre anche al Campania Teatro Festival.
In Simona, the Gangster of Art, all’inizio per lunghi minuti, appare immobile, sdraiata su un materasso, in una scena completamente immersa nel bianco con pochi oggetti sparsi qua e là e un palcoscenico completamente sommerso da polvere anche questa di colore bianco. Poi si alza, si lega i capelli e stende una riga di quella polvere bianca e la tira col naso. Simona, la gangster, è una scultrice, ladra e falsaria di capolavori e sogna di ripulire il mondo dell’arte “drogato” dalla mercificazione, dove il vero significato della bellezza è ormai corrotto .
Ha rubato dal museo di Oslo il dipinto L’urlo di Edvard Munch e lo mangia in piccoli pezzi, sottraendolo così per sempre alla speculazione del sistema dell’arte. Con abili falsificazioni del dipinto, acquista tutte le scorte di cocaina del mondo, trasformando la polvere bianca in una scultura imponente: una colonna cristallina che si innalza attraverso il tetto del teatro. Urciuoli domina la scena con grazia potente, dalle mille espressioni corporee, bella e insana, delicata e tenace. i suoi balli indemoniati e i suoi tic da cocaina. Ogni tanto afferra un brandello di tela colorata, ne strappa un pezzo e lo mastica con voluttà. Una recitazione fisica, difficile, di grande impatto, fatta di momenti di trance parossistica intervallati ad una voragine di stanchezza.
Io sono un errore è invece un testo teatrale (del 1988) di Jan Fabre che scrisse trentasei anni fa (e che in qualche modo misteriosamente si ricollegano ai testi di Antonin Artaud) non fu mai rappresentato. Quasi fosse un suo alter ego al femminile, Urciuoli è al centro della scena avvolta in un lenzuolo bianco, poi seduta su una sedia poggiata su tre ruote che permettono movimenti del corpo prima quasi impercettibili poi più evidenti. Con una sigaretta tra le mani. Tossisce molto, si verrà a sapere che ha un cancro alla gola, ma non vuole rinunciare al piacere di gustare il fumo di una sigaretta (che non riesce ad accendere) e continua a ripetere ossessivamente lo stesso mantra: “Io sono un errore perché plasmo la mia vita e il mio lavoro secondo il mio giudizio, senza preoccuparmi di ciò che si dovrebbe fare o dire“. Un lacerante monologo . L’intimità dell’artista è scovata, dilaniata, esposta in tutte le sue sfaccettature. Ma è anche una protesta contro il conformismo, contro un’esistenza preconfezionata (e tanto varrebbe, essere già morti).
A tu per tu con Irene Urciuoli
Descriviti con tre aggettivi
Tenace, appassionata, timida.
Come ti senti dopo uno spettacolo come Simona the gangster o Io sono un errore?
Adrenalinica, una sensazione di liberazione. Mi è difficile addormentarmi.
Hai iniziato studiando recitazione a Milano
Adoravo la commedia musicale. Mi sono diplomata alla Scuola del musical nel 2013 , studiando con Gipeto e ho chiuso l’anno accademico 2012/2013 con uno dei più bei musical di tutti i tempi, West side story; poi è seguito un tour con il musical Sugar – A qualcuno piace caldo e ho debuttato, al fianco di Riccardo Fogli nel musical Ladies che rivive i fantastici anni 50. Ho preso anche un secondo diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2017, e qui il regista Francesco Frongia mi ha scelto per il ruolo di Anna Balika nella messa in scena di I tamburi nella notte di Brecht ad inaugurare la stagione del Teatro Filodrammatici
Come è nato l’incontro con Jan Fabre?
Avevo visto nel 2014 al Piccolo Teatro di Milano The Power of Theatrical Madness, rimasi letteralmente folgorata dall’impatto visivo, una maratona lunga più di 12 ore, divisa in due spettacoli. Il pubblico poteva entrare e uscire a piacimento durante la rappresentazione. Mi sono proposta per un audizione. Per candidarsi occorreva inviare il proprio curriculum vitae con allegati una foto ritratto e una breve lettera motivazionale via email. Arrivo alla stazione di Anversa in treno, raggiungo a piedi il quartiere di Seefhoek. Cammino fino al 23 di Pastorijstraat: qui trovo il portone del Laboratorium della compagnia Troubleyn / Jan Fabre. Lo spazio costruito col contributo di numerosi artisti -Marina Abramović, Bob Wilson, Pascal Rambert solo per citarne alcuni- è incantevole. C’è un’energia molto potente. L’ingresso, il cortile, le sale: tutto mi sembra familiare. Leggo una targa di Alberto Garutti, incastrata nel pavimento: tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui. Sembra scritta per me. Intravedo la cucina, progettata da Marina Abramović, segnando le pareti con frasi scritte con il sangue di maiale. Passo l ‘esame per frequentare il laboratorio di due settimane che Fabre e i suoi collaboratori tengono da tempo, formando nuove generazioni di artisti. Nel novembre 2018 volavo a New York unita a Troubleyn/Jan Fabre con la performance Belgian Rules/Belgium Rules e il mitico Mount Olympus – 24 ore di performance, senza sosta.
Parliamo del suo famoso metodo di lavoro. Nei suoi spettacoli i corpi sono sempre spinti al limite, del surriscaldamento, dell’esaurimento, esposti a prove di resistenza
In primo luogo, non credo che sia violenza, preferisco parlare di energia vitale. E la bellezza non può esistere senza vitalità, senza energia vitale. Nel lavoro del performer c’è molta disciplina e altrettanta dismisura che passano attraverso la trasfigurazione del corpo. Attribuisce grande importanza alla respirazione, all’uso dell’energia esplosiva e alle articolazioni della testa, del busto e degli arti Si tratta di un allenamento mentale e fisico molto minuzioso in cui il performer impara a impegnare ogni parte del proprio corpo: il cuore che i polmoni, i muscoli, la mente, la bocca, gli occhi, le orecchie. Fabre cerca la verità del corpo, perché il corpo non mente. E’ necessario comprendere cosa sta dicendo il corpo, imparare a sentirlo, apprendere ad ascoltare lo stato biologico del proprio corpo. Il modo in cui ci si sente, dopo sei ore intense di lavoro, non si può mascherare. E da lì creare un ponte fra azione e recitazione
È la disciplina della ripetizione, gesti ripetuti sino allo stremo delle forze dei performer…
Ed è proprio questa ripetizione fino allo sfinimento fisico e mentale che i performer possono lasciarsi veramente andare, liberandosi di qualsiasi maschera. I performer non recitano la fatica, la vivono con tutte le loro cellule. Quando l’esecuzione di un esercizio non lo convince, Fabre commenta: “C’è una nota troppo drammatica, non arriva dal corpo”. In quel caso il gesto è rimasto teatro, psicologia”.
Guerrieri della bellezza: Fabre definisce così i suoi attori e le sue attrici. Cosa è la bellezza per Irene?
Non ha a che fare con un canone esteriore. A volte troviamo belle anche cose che non danno alcun piacere, anzi proprio spiacevoli. Per me, la bellezza è un modo di conoscere differente da tutti gli altri, dalla ragione, dalle emozioni, dai calcoli e dai sentimenti, che può contenere simultaneamente desiderio e paura, ricerca, curiosità e tensione, sgomento e meraviglia. E in cui ritroviamo noi stessi, nella pienezza della vita. In cerca della libertà. Il monologo di Night Writer inizia così: “La bellezza, quando crea confusione ed è sovversiva, annuncia sempre un messaggio di riconciliazione. Ogni vera bellezza è scomoda“. Parole che racchiudono il significato profondo della ricerca di Jan Fabre. Il desiderio di cercare bellezza, di renderla veicolo di unione, anche attraverso il disordine, lo shock, l’incomprensibilità; l’arte è come l’amore, porta sempre ad una riconciliazione.
Una bellezza da custodire?
La fragilità che è in noi e in mezzo a noi. La fragilità della stessa vita. Di questo contenitore fragile e vulnerabile che è il nostro corpo.