Ha tradotto i Salmi e le Sacre Scritture, è giornalista, scrittore, poeta. Il suo ultimo libro, scritto con Alessandro Dehò, è un dizionario della spiritualità che si intitola Nuovo alfabeto del sacro. Un abbecedario per disobbedienti (Compagnia Editoriale Aliberti, 187 pagine). Dal 2017, anno in cui l’ha fondato, è direttore di Pangea, una «cosa quasi inesistente». Come il filosofo è letteralmente l’amico della sapienza, così il poeta è colui che sussurra ai potenti, anzi «è il vero potente, colui grazie al quale il mondo continua a respirare». E se quella che una volta era l’industria nazionale è moribonda, oggi l’industria culturale non è messa meglio, «dacché la cultura va decisamente annientata». Lui è Davide Brullo, che ha accettato di parlare con OFF.
Libri ovunque, dai supermercati alle edicole: gli italiani sono diventati tutti lettori o è la legge del capitalismo?
Esistono ancora le edicole, non sono estinti i supermercati? Quanto a me, il rapace nella posa dello ‘spirito santo’ mi sembra esatto come un libro aperto. Ogni equinozio, attraverso a piedi una valle, tra campi in coltivo e torrioni di querce e castagne. Ci vorranno quattro ore. La destinazione è una chiesa intitolata a un arcangelo. Davanti al Crocefisso quattrocentesco, in una nicchia laterale, è posto un libro d’ore. Lo metto nello zaino. È consunto, vecchio. Faccio altre quattro ore di cammino e torno a casa. Mi pare – io, un senzadio – la giusta penitenza. Poi, su quel libro prego sopra, ripiegato. Ecco: non c’è altro libro che il Libro d’ore – gli altri sono inessenziali. Uno scrittore non scrive che il proprio Libro d’ore – come fece Rilke, ragazzo.
Luciano Bianciardi, che di lavoro culturale si intendeva a sue spese, voleva fare il beau geste rivoluzionario e buttare giù il “torracchione”, cioè la Torre Galfa a Milano simbolo della società consumistica: quale sarebbe invece il tuo gesto rivoluzionario?
Il solo gesto, oggi, non sarebbe buttar giù qualcosa – utopia di molti – ma tirar su qualcos’altro. Nell’attesa, mi inginocchio. Rivoluzionaria, sempre, è la riconoscenza. Che poi, inginocchiati, si presti il collo a chi ce lo mozzerà, è ovvio.
Dicono che il critico letterario sia un po’ il termine di collegamento fra scrittore e pubblico, ma non è che oggi la sua funzione si è depotenziata come quella del critico d’arte?
Il critico letterario si dichiara morto da un pezzo; sono morti, d’altronde, i lettori, gli editori, i librai… perfino gli scrittori… Tutta questa morte, in fondo, è corroborante: significa che qualcosa di nuovo può nascere. Ridotto a lacché o a tamburino del proprio ego, un critico letterario non serve – ci sia caro, piuttosto, l’astrologo, il navigatore in solitaria, il re magio. L’uomo che a favore di fuoco crea ombre sopra questa bruta creta, muta le mani in cervo, lupo, uccello.
Hai creato Pangea: qual è la tua visione? C’è anche un aspetto creativo oltre a quello editoriale?
Pangea è cosa quasi inesistente: una zattera, si diceva. Rotta, dunque, non v’è – del Nord sappiamo appena il suo spruzzo di capodoglio; del Pacifico c’incenerisce l’amor fati. Disadatti a tutto, ci affidiamo a questa beata/beota insussistenza. Utili a nulla, vanghiamo nel niente, seminagione di assetati.
A scrivere sono meglio le donne o gli uomini?
Genericamente, l’arte non ha genere. Saffo fu poeta eminente, Murasaki Shikibu romanziere splendente, Veronica Giuliani un genio inarginabile. Tutte e tre possedevano uno stile virile. Quanto ai miei lari – Rilke-Pasternak-Hughes e vari altri – si può dire che maneggino un linguaggio femmineo. Davide, l’Orfeo della Bibbia, ballava seminudo e seminudo uccideva; il sommo salmista nel Seicento è raffigurato come un efebo, così maschio da sembrare donna.
Freak Antoni (R.I.P.) diceva che “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”, sei d’accordo?
Non so cosa s’intenda per intelligenza. Il gusto, il giusto, qui, è disarcionarsi dal logos, arretrare dalla norma alla mania, dalla cultura alla natura, dall’intelligenza alla santa idiozia.
Hai scritto con Alessandro Dehò un dizionario della spiritualità, Nuovo alfabeto del sacro. Un abbecedario per disobbedienti: chi sono gli eretici oggi?
Energumeni dell’ego, non possiamo più dirci eretici: già cenere a noi stessi, non abbiamo carne con cui rosolare il rogo. Eretico, sempre, è il poeta? Chissà… Il poeta è il vero potente, colui grazie al quale il mondo continua a respirare, a esprimersi. Che viva reietto, nascosto, senza sapere chi è, frantumato dal frainteso è segno della sua arcana grandezza.
Tu che hai scritto Stroncature, che ruolo ha la provocazione intellettuale nell’aprire spazi di esplorazione del sacro?
Il sacro sta bene come sta – l’intelletto non lo coglie – provocazione non lo tange. È lui a chiamare, a spalancarci. A noi non resta che farci vuoto, brocca, puro belato.
Secondo te l’estetica aiuta a cogliere il senso del sacro e del mistero?
Secondo i greci, il bello è viatico verso l’altezza, pedana per il sacro. Il mistero si attinge tramite gesti rituali, una liturgia cui hanno accesso i rari. A noi basti il ciclo giottesco dell’assisiate, le Storie della vera Croce di Piero: puro cinema. Sbigottimento prima che estasi.
Al Giornale OFF teniamo molto alla valorizzazione culturale dei territori: c’è una “città identitaria” che hai nel cuore?
Da bambino sono cresciuto in isolatissimi luoghi in Val Grande, sopra Verbania. Amavo le chiese anonime, con le tegole in pietra e i santi dipinti con volti brutali, imbestiati, o straordinariamente teneri, più dolci dei gigli. Rifugio durante piogge carismatiche, agostane, pari alla chiamata.
Oggi abito in un paese al confine con le Marche, Mondaino, dove il mare ti arriva in bocca con una coltellata. Nel Quattrocento, qui, il duca di Urbino, lo sgargiante Montefeltro, e il signore di Rimini, l’enigmatico Malatesta, dichiarato anticristo, si sono incontrati a patteggiare una resa. Luogo d’altura, è dimora dei cinghiali, in estate. I romani vi avevano fondato un tempio dedicato a Diana: ancora oggi, pullulano i cacciatori. Vorrei saper manovrare l’arco, lo sogno.
Torniamo all’inizio come l’eterno ritorno: secondo te l’espressione “lavoro culturale” è un ossimoro?
Dacché la cultura va decisamente annientata, ogni lavoro per sostenerla è una forma di servaggio e di assassinio del sé. Resti soltanto l’opera.
Quest’ultima domanda la fai tu, la mia risposta te la do adesso:
Beluffi: Ma non lo so
Davide Brullo: Cosa c’è dopo la morte (o prima della vita, è lo stesso)?