A Modena la pittura maleducata di Marco Vecchiato

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Dal 29 aprile 2024 al 18 maggio 2024 a Modena la mostra di opere inedite di Marco Vecchiato: Come l’odore dei sogni del giorno dopo. Inaugurazione sabato 27 aprile.

Tutta la vita era sotto la cappa della morte. Uomini e donne perpetuavano la menzogna dell’amore. Andavano in giro inalberando i vessilli dei loro volti morti. Sbadigliavano esageratamente, per strada, guardare dentro le loro bocche spalancate era come affacciarsi a una latrina piena di merda morta“: così lo scrittore Antonio Moresco nell’incipit del suo romanzo Gli incendiati, prosa in prima persona ma chissà estendibile a una pluralità piuttosto vasta di cittadini del mondo che vanno a formare quell’heideggeriano innanzitutto-e-per-lo-più in cui ci troviamo un po’ tutti.

Una condizione umana che va molto al di là della nausea di Jean Paul Sartre, quando nel romanzo filosofico La nausea scopre la verità esistenziale (o meglio “esistentiva”, come avrebbe detto il mistico della Foresta Nera, Martin Heidegger). Qualcosa che va molto al di là del vomito, che sgorga dalle fauci spalancate come caverne buie di Francis Bacon pittoricamente ossessionato dalla cavità orofaringea.

L’inguaribile materialista dice che in fondo siamo solo scimmie evolute, il pessimista secondo il quale per noi non c’è redenzione dice che siamo pezzi di carne inebetiti dall’insostenibile pesantezza dell’ “esserci” heideggeriano. Un tizio più scanzonato direbbe invece che siamo rincoglioniti come dei Teletubbies, ma poco cambia.

Perché “l’esserci”? Perché il fatto di “esserci” (“sotto la cappa della morte”) denota perfettamente il palcoscenico visivo/visionario sul quale questa sera recitano a soggetto i soggetti di Marco Vecchiato: ebetini incolpevoli che non riescono più a prendere in mano la situazione, il mondo là fuori che nelle opere di Vecchiato è il grande bianco, lo sfondo azzerato sul quale questi soggetti fissi stanno, come sussistenti, esistenti di per sé, idealmente con la boccuccia a culo di gallina e dai contorni indefiniti, senza identità, alle prese con un mondo che scivola come la vita: sfugge di mano come i granelli di sabbia nella clessidra, tempus fugit e con lui la vita e tu non puoi farci niente.

Il grande bianco che è il fondo dei personaggi di Vecchiato non è un non-luogo, ‘chè il non-luogo è fisicissimo come un aeroporto: è uno spazio psichico, lo specchio solipsistico dei suddetti ebetini incolpevoli che affogano nella realtà e se l’inferno sono gli altri questi ebetini incolpevoli siamo noi, un po’ come Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, per dirla con Cesare Pavese.

I corpi sono accennati come il resto delle fattezze, a volte tronchi rimembranti l’osceno di De Sade e in effetti, mutatis mutandis, il proscenio dei soggetti di Vecchiato è l’o-sceno di Carmelo Bene, cioè il fuori-scena («…osceno vuol dire appunto fuori dalla scena, cioè visibilmente invisibile di sé», come disse quella sera sul palco del Maurizio Costanzo Show): i corpi di Vecchiato sono i proprietari assenti di se stessi, sono il non-rappresentabile di Bene, appunto l’o-sceno, cioè l’inesistente. Sono presenze/assenze, non esistono, sono impresentabili come la scena nel teatro di Carmelo Bene, sono o-sceni.

Una o-scenità che porta fuori con sé dalla rappresentazione / raffigurazione anche l’identità: i soggetti soggetti all’indecifrabile sono maschi o femmine, lo si intuisce dal segno nervoso che ne determina l’anatomia e su cui torneremo più avanti, sono de-generi, cioè fuori dal genere maschile / femminile, allo stesso modo in cui noi profani guardando un teschio umano non sappiamo dire se sia di un uomo o di una donna. I corpi di Vecchiato hanno solo due cavità piccole come spilli, piccole come occhi di un topo a denotare le cavità nasali del teschio e null’altro attorno, sono gli amanti di Magritte ai quali è stato tolto il velo dalla faccia con tutto quello che c’era sotto: sotto il velo niente, come nel romanzo di Marco Parma (alias di Paolo Pietroni) Sotto il vestito niente, l’anima dove l’hanno persa?

I corpi sono tratteggiati da un segno scabro, a volte sono tronchi di corpi e altre nemmeno quelli, solo allusioni, sono spettatori accennati che non dialogano né interagiscono col mondo là fuori, ridotto (o arricchito?) come in Arcangelo, un Maestro con cui sarebbe interessante un raffronto generazionale, cosa che in parte si potrebbe fare anche con quell’altro Maestro, Alessandro Verdi.

Vecchiato fa una pittura estrema, secca, inclemente, scarnificata, materiata di segni, lontana anni luce dal fervore cromatico che pure a suo modo c’è, pulsante da quel grande bianco che è il film pittorico su cui i soggetti stanno, semplicemente stanno, espressione di quella “pittura dell’ignoto”, tanto per citare il titolo del catalogo di una mostra di più di una decina di anni fa di Mario Raciti, di cui sicuramente Vecchiato è profondo conoscitore e debitore per quei fondi indefiniti e grezzi e quella “narrazione” meta/fisica nel vero senso dell’espressione, cioè al di là dell’apparenza familiare.

Ma la realtà, in Vecchiato, c’è ed è tutta lì anche se non la vedi, anche se è o-scena: «La mia pittura è realista perché parla del presente, è figurativa, fenomenologica, ammesso e non concesso che queste distinzioni vogliano dire qualcosa, perché sotto il groviglio di linee c’è la figura e quella figura non può che essere l’uomo, l’essere, l’io», dice Vecchiato. Infatti figurativo e astratto erano arnesi vecchi già dai tempi dell’informale e d’altro canto la pittura, con buona pace di Aristotele, non è mai stata mimetica, nemmeno la fotografia, nemmeno da quei suoi primi vagiti con cui si pensava dovesse spazzar via l’antica disciplina.

Quella di Vecchiato è tutt’altro che pittura classica, è distinta e distante da una condizione classica di armonia fra uomo e mondo, è a-figurativa, è “astratta” (idem) come quelle correnti artistiche primonovecentesche che Wilhelm Worringer nella sua fondamentale opera di estetica filosofica (Astrazione ed empatia) racchiudeva nel cerchio magico dell’astrazione in opposizione all’empatia.

Vecchiato fa una pittura non-empatica, “maleducata”, una pittura “primitiva” nell’unico senso in cui possiamo intendere l’arte primitiva (cioè gino-de-dominicisianamente giovane e contemporanea) e cioè in un senso elevatissimo,fatta di impulsi che producono forme inorganiche che si riaccompagnano per reminiscenza alla figura umana: una pittura dell’inquietudine che traduce per immagini quella Filosofia dell’inquietudine di cui ci parlava il filosofo Renato Troncon e che ri-troviamo nei corpi allungati di Giacometti.

Questa pittura denota l’inquietudine dell’uomo contemporaneo (o forse meglio di alcuni contemporanei) verso un mondo evidentemente indecifrabile: qui la realtà è bianca, tabula rasa da marcare con l’interpretazione a piacimento, sia essa un rituale magico o un’impresa scientifica o un’opera d’arte visiva o una composizione musicale: tutto e niente, come cantava Piero Pelù.

E se è vero quanto diceva lo storico dell’arte Alois Riegl -ispiratore di Worringer -, ovvero che ogni stile è all’altezza della sua epoca, allora la visione del mondo di Vecchiato è super-contemporanea. Lui è un pittore tedesco, la sua pittura può farci bene e può farci male e del resto l’arte contemporanea questo è: tutt’al più noi, percorrendo uno scanzonatissimo circolo dell’eterno ritorno, possiamo tornare da dove siamo partiti e tirare un sospiro di sollievo insieme agli astanti in quella battuta riferita dal giornalista Giancarlo Dotto biografo di Carmelo Bene, quando all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico alla domanda «Come va?» rispondevano «Non c’è Bene, grazie».

C’è un’opera, nella storia dell’arte e più precisamente nell’alveo del Realismo Espressionista, che possiamo prendere non solo come rimando esplicativo ma anche come “slogan” per commentare il tempo presente visto con gli occhi di Marco Vecchiato: è il “foto-collage” realizzato da John Heartfield nel 1936 e intitolato Questo è il benessere che essi portano, che raffigura lo scheletro di una mano umana da cui si dipartono aerei militari mentre in basso si ammassano le macerie della guerra e i cadaveri. Per reminiscenza e con le ovvie proporzioni e relativa contestualizzazione, se restiamo nell’universo di discorso immaginifico di Vecchiato ci vien da ripetere proprio la frase «questo è il benessere che essi portano»: non ci sono né morti né macerie, sebbene al tempo d’oggi siano in corso una guerra nel cuore dell’Europa e un conflitto atavico in Medio Oriente che rischia d’allargarsi (senza contare che c’è stata una pandemia dimezzo), però a partire dagli anni Novanta il mondo sembra essersi incrudelito a ritmo esponenziale. Non solo guerre, che pure ci sono sempre state, ma anche incomunicabilità al netto dello strapotere dei social, con una diffusa violenza generazionale prima inconcepibile e una povertà oggi interclassista. Ma c’è un’alternativa? (che poi è un po’ il Che fare? del compagno Lenin).

Sapendo che non possiamo fare né i Pangloss di turno, il personaggio del Candide di Voltaire che crede di vivere nel miglior mondo possibile, né gli Schopenhauer de noartri, possiamo essere ottimisti a oltranza o pessimisti impenitenti? O forse c’è la via di mezzo? C’è o non c’è una alternativa? I soggetti di Vecchiato sono davvero dei Teletubbies o la loro è l’unica azione possibile per reagire e sopravvivere al caos?

Si diceva di lui come “pittore tedesco” e qui urge l’ammonimento: FERMI TUTTI! Nessuno vuol dire che la sua rimembri ancora una pittura à la Neue Wilden anni ‘80, perché come direbbe Jules Winnfield a Vincent Vega in Pulp Fiction «non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport»: piuttosto diremmo italianissima per quei rimandi esplicativi a Raciti e un po’ Arcangelo e un po’ Verdi. Ma la Germania c’entra lo stesso e fa tutt’uno con il titolo di questa mostra e di conseguenza con le opere esposte perché, Moretti ce l’insegna, «le parole sono importanti». Queste opere di Vecchiato sono “cinestetiche”, muovono sensi plurimi e “suonano” come l’odore dei sogni del giorno dopo.

Un passo indietro: perché “suonano”? Nel 1988 il cantante David Lee Roth mostra al chitarrista Steve Vai la copertina bell’e pronta del suo secondo album Skyscraper, ha bisogno della title track e gli dice: «falla suonare così». Bon, facendo una scorribanda da un contesto all’altro, diciamo che queste opere di Vecchiato “suonano” emanando l’odore dei sogni il giorno dopo a partire dalla loro stessa composizione onirica.

Qui siamo al punto: la realtà è irreversibile, non si adegua ai nostri pensieri e sentimenti e desideri, ecco perché Freud definiva il sogno un desiderio inconscio realizzato per interposta realtà onirica. Il suo celeberrimo saggio L’interpretazione dei sogni in tedesco era Die Traumdeutung: traum vuol dire sogno e la parola italiana trauma, in greco (τραῦμα) significa “ferita”. Sogno/trauma/ferita/desiderio, quante volte al risveglio ci accorgiamo con gioia o amarezza che la realtà del sogno è morta lì? Eppure “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I), essendo l’unica differenza fra vita e sogno schopenhauerianamente il principium individuationis che opera in maniera differente, ma il punto è un altro: se con Platone intendiamo l’arte visiva come la copia di una copia essendo il mondo là fuori mera apparenza, allora l’arte di Vecchiato è un sogno nel sogno che è la nostra vita. Il risveglio è acre, sanguina come una ferita (τραῦμα) e la realtà che già è sogno (La vida es sueño, diceva Calderón de la Barca) s’impone con una stilettata, è irreversibile e quel che resta è l’odore del sogno, un po’ come l’odore di mandorle dopo un’esplosione col Semtex. Ecco perché come l’odore dei sogni del giorno dopo è una mostra cinestetica: buon viaggio polisensoriale.