“L’avversario” di Russotto della Sperimentale in lizza agli Student Academy Awards

0

Essere in continua lotta, nel turbine dell’ossessione, cercando di colpire colui che si ha dinanzi. Gli sport individuali rappresentano psicologicamente e spiritualmente l’idea romantica ed eterna del guerriero che, come nelle grandi saghe mitologiche, deve costantemente superare dure prove di cui la più difficile si rivela poi essere quella interiore. Ne “L’avversario”, cortometraggio diretto da Federico Russotto, questi temi legati alle paure interiori, al racconto di formazione di un giovane sportivo, sono espressi perfettamente grazie ad una messa in scena claustrofobica dai toni perennemente chiaroscuri. Si tratta di un’opera la cui narrazione non getta risposte ma cerca domande, come quelle che il protagonista sarà costretto a porsi in una continua lotta con sé stesso. Russotto, da poco diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, è tra i giovani autori promettenti il cui talento lo sta accompagnando a grandi traguardi, uno tra tutti la candidatura agli Student Academy Awards 2022 proprio per “L’avversario”. Un notevole successo ottenuto ovunque, da Alice nella città presso la Festa del Cinema di Roma al Festival Inventa un Film di Lenola. Il suo cortometraggio successivo “Reginetta” è stato in concorso alla 37° Settimana Internazionale della Critica di Venezia dove si è aggiudicato il premio per il “Miglior Contributo Tecnico”.

Hai ricevuto la candidatura agli Student Academy Awards con il cortometraggio “L’avversario”, un’opera  che miscela sapientemente forma e drammaturgia in un racconto di formazione dai risvolti meno convenzionali. Da dove sei partito per elaborare il testo che poi hai portato sullo schermo?

L’idea nasce, banalmente, da una mia esperienza personale. Non ho mai praticato scherma però ho giocato per molti anni a calcio e quindi la mia cosiddetta esperienza diretta è legata allo sport di livello agonistico, essendo cresciuto negli spogliatoi con tanti allenatori e tanti compagni di squadra negli anni. Poi, intorno ai diciassette anni giunsi a quel punto in cui dovevo decidere se abbracciare l’idea di fare il calciatore nella vita oppure mollare e così, alla fine, ho preferito lasciar stare, ho mollato. Sapevo di trovarmi davanti a calciatori più bravi di me come accade al protagonista del cortometraggio, Aureliano, quando incontra questo ragazzo dal talento incredibile che sembra essere toccato dal cielo e capisce che probabilmente deve lasciare andare avanti chi più bravo e capace di fare un grande spettacolo. Credo che il pensiero riguardo alla parte spettacolare non si limiti soltanto allo sport ma comprenda totalmente anche le varie arti, tra cui ovviamente il cinema, perché la cosa più importante è fornire un grande spettacolo di fronte al pubblico. Quindi ho capito che il calcio non era la mia strada, non ero Maradona e non sarei mai arrivato davvero in alto. Così la storia che ho scritto, anche se tratta il mondo della scherma, nasce dal mio passato da calciatore.

Si tratta di un autoanalisi quindi?

Si. L’idea è di stare il più possibile nella testa del protagonista cercando di fare uscire i suoi pensieri nonostante il corto sia pervaso quasi del tutto di silenzi, pause, sguardi e anzi proprio attraverso di essi possiamo avvicinarci alla sua intimità. Abbiamo fatto un grande lavoro sulla musica attraverso delle piccole percussioni che il compositore Sergio Bachelet ha saputo riportare con grande attenzione. Dunque, si, il cortometraggio è una sorta di autoanalisi silenziosa.

Inoltre, nel cortometraggio il protagonista viene avvolto da inquadrature molto strette in cui è possibile entrare nei suoi occhi colmi di rabbia e paura. Si percepisce una costante ombra su di lui. Come hai ideato questa narrazione visiva claustrofobica intrisa di chiaroscuri?

Da una parte c’era quest’esigenza di essere nella mente del protagonista, dall’altra invece c’erano delle limitazioni pratiche che spesso entrano nella lavorazione di un film. Abbiamo girato in piena seconda ondata di covid, era dicembre 2020, quindi non siamo riusciti a trovare una vera palestra di scherma e quella in cui abbiamo girato era la nostra palestra al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Per renderla più affascinante e misteriosa io e il direttore della fotografia Sebastian Bonolis abbiamo scelto di tenerla più chiaroscurale possibile, lasciando così le zone d’ombra e le zone di luce per formare questo contrasto e donando appunto quella sensazione claustrofobica che hai citato e che la storia richiedeva. Si tratta di un periodo difficile per il protagonista, un momento di crescita e il pubblico doveva avvertire questa costrizione al cambiamento e alla ricerca interiore. La cosa bella è che il parcheggio che vediamo in due scene doveva essere all’aperto e invece Sebastian si è imposto con l’idea che assolutamente dovevamo girare al chiuso e credo che alla fine sia stata la scelta vincente perché ha aiutato a costruire totalmente un corto claustrofobico in cui non si vede mai la luce del sole e sembra sempre notte.

Nel mentre giravi “L’avversario” eri ancora studente presso il Centro Sperimentale tant’è vero che hai beneficiato dei mezzi che la scuola ha messo a disposizione e della collaborazione con gli studenti dei vari reparti. Quanto ha influito la macchina accademica che avevi sulle spalle?

In realtà il Centro Sperimentale, essendo la culla di questi progetti, influisce tantissimo sia positivamente che negativamente a volte. Bisogna sempre essere in grado di riuscire ad utilizzare nel miglior modo le importanti risorse che fornisce ai registi per i propri corti e che ovviamente aiutano ma in alcuni casi è possibile trovarsi davanti a delle limitazioni, come nel mio caso. Susanna Nicchiarelli, la supervisore del corto, è un’insegnante esigente, estremamente meticolosa e spesso noi giovani autori avevamo la sensazione che fosse lei ad un certo punto l’artefice dei nostri corti, che si trattava di suoi film, cosa che da un lato può essere asfissiante. Io ho una propensione verso il genere, soprattutto amo il surreale, il fantasy e questo lei l’ha totalmente ignorato, quindi mi ha spinto a cercare una storia personale che venisse dalla mia esperienza. Immediatamente ho pensato al mio passato nel calcio che poi, attraverso la mia esigenza di fare qualcosa di diverso, mi ha portato al mondo della scherma e per certi versi quasi a fare un film in costume con le spade, la maschera, trasformandolo così in un thriller psicologico e affrontando lo stesso il genere. Quindi il Centro Sperimentale ha influito sulla mia opera, soprattutto perché altrimenti non l’avrei neanche mai ideato e alla fine ha avuto degli esiti positivi. Ad esempio non avevo mai pensato di inquadrare una macchina di oggi perché non ne subivo il fascino, ho sempre cercato qualcosa di altro attraverso la fantascienza, il film storico, invece grazie a quest’esperienza sono uscito dai miei soliti canoni ed è stata una bella sfida.

Una volta hai definito questo corto come una sorta di “Amadeus” della scherma. Da cosa nasce il voler raccontare l’ossessione in campo sportivo e l’estrema rivalità con sé stessi?Dopotutto, l’avversario non è neanche la tramutazione in chiave fisica di un pensiero recondito, una lotta contro il proprio specchio.

Esatto. L’idea è che diventi una metafora del doppio perché attraverso la scherma lotti contro te stesso, contro il tuo riflesso. Inoltre attraverso la maschera c’è la perdita dell’identità. Abbiamo insistito molto sulle scene di allenamento con il manichino, esercitazione che loro fanno davvero, perché aiutavano a dare quel senso di spaesamento che Aureliano ha quando poi si trova davanti chi lo porterà a mettersi in discussione. Amadeus è uno dei miei film preferiti e che riguardo spesso. Si tratta di un’opera che amo soprattutto per la semplicità che paradossalmente ha nonostante il fatto di avere una grande messa in scena, i costumi, perché in fondo si tratta semplicemente di una storia di ossessione e di rivalità. Durante gli anni trascorsi al Centro Sperimentale ho capito che film amo vedere perché sono quelli che poi mi influenzano come regista. Cerco di proiettare sullo schermo le storie e i mondi che amo da spettatore. Le storie legate all’ossessione sono tra quelle che maggiormente mi forniscono ispirazione, come è successo in questo caso grazie anche al film Il cigno nero.