Quel passato geniale dei futuristi, artisti che non eran fatti per il tempo

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CarloCarrà_Cavallocavaliere_1915 - fonte zabarella.it/mostre/futurismo

Se c’è qualcuno che nel tempo ha voluto tuffarsi pazzamente, lì, in quel momento, in quegli anni, in quei giorni, sono i futuristi. Eppure entri a Palazzo Zabarella a Padova (FUTURISMO. La nascita dell’avanguardia 1910-1915) nella prima sala della mostra dedicata all’arte dell’avanguardia delle avanguardie (visitabile fino al 26 febbraio 2023), e senti che la luce sulla tela di Galileo Chini non è di ieri, di oggi o di domani. Non è fatta di tempo e per il tempo. È la stessa dei marmi di Fidia, dei polittici medievali, di quel soprassalto di commozione uscito dalla gola di Menandro: “Quanto è straordinario l’uomo, quando è davvero uomo!”. L’inafferrabile luce che sentiamo di respirare in ogni respiro che ci fa vivi. Entra dai finestroni del sontuoso palazzo della Fondazione Bano, esce da un tuo pensiero innamorato e si appoggia sulla tela. Luce.
Come sono assoluti questi quadri, senza tempo! Com’è sempre assoluto il genio, anche quando grida domani, domani, domani! Solo e consolante. E com’è bello Mario Sironi, in un autoritratto a carboncino del 1904, con gli zigomi alti e i pensieri ancora di più, che non ci stanno nella cornice!

MarioSironi_Autoritratto_1913 – fonte zabarella.it/mostre/futurismo


Capisci subito che la sfida è lanciata. “Ricostruire l’universo rallegrandolo.” Dare “scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile”.
È una caccia sfrontata e sfrenata e urgente e calda. Segantini, che scompone il bianco per dire le ore del mattino. Carrà, che fa bruciare il fuoco di Efesto nell’”Allegoria del lavoro”. E il volo contraddetto, con i capelli di lei che sbandano, ma potentissimo, un’Ascensione, dei Paolo e Francesca di Previati. Il sogno giallo girasole di Boccioni. Un tramonto quasi musicale di Pellizza da Volpedo. I mosaici di colore di Carrà. Treni in corsa nella notte, che stingono luce di velocità dai fanali. Le tre Parche, vecchine fin troppo reali, gemelle nella crudeltà, vestite tutte di rosso, con un grumo di luce bianca tra le mani da tagliare al primo pensiero cattivo.
È tutto esaltante, questo vivere, questo morire. L’alternarsi delle ore, la velocità delle macchine, la sofferenza dell’amore nella ragazza distesa a pregare senza guardare il cielo, con la faccia premuta sul piano di un tavolo, un grappolo di gigli che la guardano e la mostrano.

UmbertoBoccioniMeriggio_OfficinePortaRomana_1910 – fonte zabarella.it/mostre/futurismo

Le “Officine a Porta Romana” di Boccioni sono una rugiada di luce, un fremere di vita, uno scattare di pensieri colorati. Perfino in un incidente in fabbrica il genio può volare in cerca di risposta alle sue grandi domande, o di domande più grandi ancora.
Cominciano gli ardimenti estremi. I dissolvimenti di Balla. Le scomposizioni di Soffici. Il “dinamismo meccanico e animale” di Gino Galli. E la follia della guerra, con i suoi aerei puntati verso l’apice del cielo, le trincee insanguinate di inchiostro nero. C’è solo ancora una manciata di attimi per rallegrare l’universo, e infatti è un parossismo di bozzetti per l’arredamento, di progetti architettonici, di boschi di carta, di arazzi fiabeschi, di parole che gridano la voglia vitale che il possibile sia davvero possibile. “Le morti eroiche non devono essere compiante, ma ricordate con vestiti rossi.”
E più l’atroce prima guerra mondiale avanza, con le sue trincee che tagliuzzano l’Europa, più vorresti tornare indietro, indietro. Non uscire più da quel passato geniale che è appena stato il Futurismo.