Con Filippo Davoli in cammino fra io e Dio

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Due versi estremi. Un endecasillabo in cui il poeta si svuota della propria identità. “Voleremo a mezz’aria, scrive Paolo.” E l’altro, lo schiocco intimo della decisione. “Sì: Sei.” Che poi è il significato dei nostri “Amen”. Tenerissimo amore (Industria & Letteratura 2022, pp. 124, € 15) di Filippo Davoli è uno sterminato cammino tra due poli: l’io e Dio. E l’affanno, inevitabile, lo costringe a quell’andare ripetutamente a capo, a scoprirsi poeta. Ogni verso un prendere respiro, perché il tutto e il nulla sono in lotta e appena si colpiscono è l’approfondirsi di una ferita, lo schiudersi di un verso. Più le poesie sono levigate e pure, più sono delicate e disciplinate, addirittura obbedendo al metro, più grande è l’abisso che le sta chiamando.

È così un esercizio di pietas, che umanizza, seguire la voce di Davoli nel suo interrogare la Verità che gli evangelisti Marco, Matteo, Luca, Giovanni hanno provato ad appuntare nel loro greco pieno di stupende imperfezioni. Ed è una grande lezione di teologia. (E anche – ma sarebbe meglio lasciarlo nel segreto – un giudizio sul mondo. Il poeta lo ha capito il perché di quel “Crocifiggilo!”, di cui il canto gregoriano insegna tutto l’osceno orrore. Infatti scrive: “Ringrazieranno quando sarai lontano/ e non potrà più nuocergli il Tuo bene”.)

Li ritroviamo contemplati alla luce del loro e del nostro mistero Giuseppe, Maria, Simeone, Giovanni il precursore, gli indemoniati, i sofferenti, la dodicenne che il Figlio di Dio ha preso per mano dopo averla svegliata dalla morte. E Lazzaro. E Maria Maddalena, tra i profumi e i fiori del giardino. E i discepoli. E poi, incontenibile, Lui – Davoli non riesce a non ribadire il suo essere maiuscolo, pur se perfettamente uomo. Lui, venuto “dal fondo del Principio”. Riempie gli occhi che lo cercano, il Verbo, luce di ogni luce, come al cieco che, guarito, si è ritrovato di fronte l’unico brandello della creazione che il peccato aveva lasciato intatto: Lui, la Sapienza eterna, luce che ci vuole a volte ciechi, salvi da ogni limite di presunzione.

Nell’ansia di verità del dolore, Davoli osa dire a “Lui”: “Se ci ami che vuoi? Perché non sorgi/ lesto come Tua madre dalla sedia/ a procurarci il vino della festa,/ a rimuovere i sassi che ci stringono/ morti dentro il sepolcro?” Ma lo sta cantando. Anche il grido è una lode dell’unica cosa necessaria. E riesce perfino a dire il vertice della Passione, il massimo della distanza tra il Figlio e il Padre: “Tu in Lui senza di Lui”. Quasi da dentro il “suo dolore di carne e di tempo”.

In Davoli si percepiscono le altezze, le profondità stampate nel cielo, dei canti di Davide. Il salmo 139, in cui la creatura è nel grembo del Creatore ovunque guardi e vada. E se quest’eco suona così straniera, oggi, è solo perché c’è molto rumore di fondo. Invece il “Sì: Sei.” è la conclusione verso cui si precipita ogni deduzione filosofica. Il sostegno di ogni ipotesi etica. La sensatezza che illumina ogni esperimento scientifico. La carne delle nostre ombre. La terra nella quale possiamo seminare figli. Il prendere vita della polvere, che chiamiamo ‘storia’. La formula della bellezza perfetta – il miracolo –, che riusciamo un po’ a capire solo quando il nostro amore è in alleanza con l’Amore.