Dino Risi, regista de Il Sorpasso, sardonico poeta della Commedia all’Italiana

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“Non ho amato Stalin/ non ho fatto sit-in partecipato a cortei/ contro gli ebrei/ fatto digiuni firme per la pace/ gridato viva Mao/ né letto un tazebao/ fatto crociere di piacere/ frequentato discoteche, cineteche/ non mi è mai occorso/ di portare avanti un discorso/ non ho detto valido /puntuale /e nemmeno virtuale/ mai barattato l’impegno/ con l’ingegno/ nella misura in cui non ho partecipato a tavole rotonde/ condotte da brutte donne bionde/ Insomma mi chiedo (parole amare)/ in questa Italia che cosa sono campato a fare?” D.Risi, “Versetti Sardonici “.

Cinici, brillanti, liberatori e taglienti. Sono i componimenti poetici del maestro della commedia italiana, Dino Risi. Sono i “Versetti Sardonici“, pubblicati dalla Gog edizioni. Una raccolta di “non poesie” in cui il regista de “Il sorpasso” convoglia tutta la sua gelida e sferzante ironia, attraverso delle composizioni in versi brevi.

 Un’Italia edonistica e spavalda, sarchiapona e meschina. Una galleria di ritratti sott’odio della vita pubblica italiana e delle sue tante maschere, dai comunisti radical chic boriosi e altezzosi (“Aveva la villa/ lo yacht/ l’aereoplano/ era iscritto al partito/comunista italiano”) alle famigliole piccolo borghesi in cui ci si commuove di più per la morte di un personaggio di una telenovela che per quella di un parente, fino alle tante pose della vita di coppia fatta di bugie, di equivoci, di   tradimenti. Pose che assomigliano ad acquarelli fatti con l’acido prussico, in cui ogni epigramma, diventa lo spunto per un film, per un’opera teatrale, in cui esitano le parzialità diIn nome del popolo italiano”, le nevrosi de “I mostri”, il cinismo del “Vedovo”, la spavalderia del Sorpasso.

Un album di istantanee della società italiana intrise di nostalgia e di umorismo nero. Dalla rassegnazione del morto che scrisse sulla sua lapide del cimitero, “almeno mi sono tolto un pensiero”; alla poesia della donna più bella del mondo che scelse un cieco come amante “per non vedersi invecchiare”; fino alla mediocrità di quegli artisti a cui si perdona la loro cattiva arte in nome della cattiva politica di bandiera.

Leggendo i Versetti di Dino Risi sembra di immergersi in un film in cui ogni fotogramma è come un grande omaggio al suo cinema, un concentrato di divertimento e amarezza che racchiude le didascalie di un’opera su quella selvaggia ed esilarante parata che è la società, vivisezionata in tutti i suoi vizi e virtù: dall’omertà della folla (“a chi non parla non vede non sente, han dato un nome: si chiama la gente”), all’ipocrisia del potere e delle istituzioni (“se uccidi un uomo andrai in prigione, ma avrai un monumento se ne uccidi un milione”). Una grande raccolta di luoghi comuni nuovi di zecca fatti per non essere rovesciati, a metà tra i necrologi ironici di Montanelli e le frecciatine del codice della vita italiana di Prezzolini, in cui emerge la sagoma di un grande interprete della società italiana che non intende giudicarla, ma mostrarla in tutti i suoi volti.