“I gelati sono finiti” e anche noi non stiamo tanto bene

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La copertina non aiuta: è minimal e omogenea, un’unica tinta bianca su cui campeggiano, in neri caratteri sobri e rigorosi, il titolo del libro in stampatello e sotto, piccoli piccoli, l’autore e l’editore. Il resto è il vasto mare del cazzo che me ne frega, anzi no del bianco che più bianco non si può, tu chiamalo il deserto dei tartari se vuoi.

Eppure il titolo del primo romanzo di Francesco Sala si presta all’immagine e all’immaginifico: I gelati sono finiti. Così, secco, come la copertina (e il romanzo, ma qui non si spoilera niente).

Anche J. D. Salinger voleva una copertina pulitissima per il suo Giovane Holden e per questo aveva fatto ammattire l’editore Einaudi, che infatti aveva dovuto far rifare la copertina del romanzo tre volte: ecco perché i bibliofolli sanno che ci sono tre edizioni diverse.

Ma nel nostro caso il desiderio minimalista è tutto dell’editore, TranseuropA Edizioni, una casa editrice, leggiamo sull’internet, “nata ad Ancona nel 1987 e rifondata nel 2003 da Giulio Milani. Nel 2005 la sede si è spostata a Massa”. Insomma, non proprio dei neonati. Dunque la scelta di non lasciar scampo alla copertina trovami-trovami è tutta dell’editore (e si presume con l’accordo dell’autore): niente corbellerie, priorità al contenuto.

Anche le note biografiche sul retrocopertina sono speciali: Francesco Sala ha sempre lavorato con le parole, ma oltre a presentarsi come giornalista e addetto stampa e speaker radiofonico, cita in elenco anche quell’ essere-ciò-che-fai, per dirla alla Sartre. E quindi: falegname, operaio, bracciante, lavapiatti, cameriere, barista, fattorino, cuoco. E poi: un teatro e due cinema (no, non è anche un attore). Insomma, Bukowski e London e Conrad ce l’insegnano, se vuoi fare lo scrittore vai a lavorare.

Di cosa parla I gelati sono finiti? Parla di noi e parla di questa epoca e né gli uni né l’altra ne escono tanto bene.

La scrittura di Sala è diretta ma non cruda, strizza volutamente l’occhio allo stile evocativo/iconografico metrosexual wanna be da aperitivo a Milangeles ma si ferma molto prima, un po’ come una Porsche GT3 che volendo potrebbe stracciare la tua sportivetta da fighetta ma le basta far vedere che appunto può farlo.

E la Porsche non è una citazione a caso, perché nel romanzo i dettagli sono importanti come le parole per Nanni Moretti nel noto film e la Porsche, ‘sti cazzi, c’è per davvero nelle prime pagine, leggere per credere.

Dettagli di vita, accessori, marche di vestiti, di macchine e scarpe, nei gelati che sono finiti vengono associati ai vari personaggi, come se si fondassero su di essi. E questo non è bello.

L’ambientazione è Milano, un “parco giochi per ricchi” come è stata giustamente definita da una candidata alle recenti elezioni campanilistiche, l’epoca è quella pandemica, la storia è una serie di storie, i personaggi sono milanesi emigrati cioè acquisiti: di fatto, il concetto di sradicamento (che Francesco Sala in un certo senso ha vissuto di persona, essendosi trasferito da quella Milano, che-non-era-già-più-da-bere-prima-figurati-adesso, a Londra nella perfida Albione) è importante nell’intera economia narrativa del romanzo, ambientato fra periferia e hinterland, magari evocando nel nostro immaginario i rozzanesi che il sabato vanno sui Navigli per fare i protagonisti dell’estate (non più in San Babila, non si esce vivi dagli anni 80).

Sala nelle 180 pagine del suo libro ci regala intrecci di storie e crisi, sia sistemiche (leggi: pandemia con annessi e connessi) che personali: i dettagli di vita sono i dettagli del racconto e affrescano una galleria di personaggi (su cui spicca il protagonista, eroe negativo che galleggia sull’inquieto vivere) che si identificano con il prodotto, quasi come il Patrick Bateman di American Psycho (altro romanzo-altro film) che va in paranoia per il biglietto da visita del collega di lavoro, troppo più bello del suo.

I gelati sono finiti suona un po’ come la festa è finita, fotografa brutalmente la società attuale: ma di chi è la colpa? Del sistema, come volevano gli anarchici punkabbestia? Nostra?

Di certo si vede, neanche troppo a livello interstiziale, una decadenza nazionale, forse un modello di vita e di valori o pseudo tali che si va esaurendo e sta passando il testimone a qualcun altro, forse abbiamo già detto tutto quel che c’era da dire e sarà per questo se nelle prime pagine del romanzo il protagonista svogliatamente all’aperitivo con l’amica (amante che a sua volta vorrebbe far passare lui come fidanzato) e le amiche dell’amica guarda l’orologio dei nostri nonni, cioè il telefono:

– “Dove siete?”: cazzo si scrive, la stordita? Siamo qui, non ci vede?-

Già. Una volta non dicevi “dove sei?”, ma “come stai?”. Come ha recentemente detto Francesco Sala in un collegamento webbe, “Siamo una civiltà stanca, che ha già detto tutto quello che c’era da dire. Ecco che il romanzo contestualizza in fondo cosa siamo stati“.

Ancora una volta, nell’era dell’ipertrofia comunicativa di parole e immagini, tocca dire che siamo incapaci di relazionarci, recintati come siamo nei nostri sche(r)mi mentali.