Biennale di Venezia: 90% donne, al Padiglione Italia rivincita del maschio

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@Labiennaledivenezia pagina FB

La mostra principale della 59esima Biennale di Venezia, Il latte dei sogni (titolo di un volume di favole di Leonora Carrington), nasce sotto il segno del me too.

Sui 213 artisti distribuiti dalla curatrice Cecilia Alemani tra l’Arsenale e il Padiglione Centrale dei Giardini, la rappresentanza maschile è ridotta a uno sparuto 10% (22 presenze), contro uno schiacciante 90% di donne. Dato che non solo farà felici le Guerrilla girls (use a lamentare la risicatissima percentuale femminile a mostre e rassegne), ma stravolge qualsiasi precedente: nel 2019 le donne si aggiravano intorno al 50%, mentre nel 2017 – altra Biennale curata da una donna: Christine Macel – sfioravano il 35%.

Ma davvero, necessariamente, pink is better?

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Da rappresentante della categoria ho apprezzato molte scelte. Prima fra tutte lo spazio riservato alle storicizzate: le sezioni La culla della strega e Corpo orbita sono un tuffo alle radici di un’arte femminile e protofemminista. Dalla futurista Benedetta Cappa alle surrealiste Remedios Varo e Dorothea Tanning, fino alle guerriere della penna: Djuna Barnes, Valentine de Saint-Point e Rosa Rosà. E poi ho apprezzato la più che rispettabile presenza italiana: venti rappresentanti dell’arte del Bel Paese non sono poche per una rassegna che troppo spesso pecca di esterofilia. La sezione Tecnologia dell’incanto, addirittura, è tutta nostra, con fuoriclasse del calibro di Nanda Vigo, Grazia Varisco e Dadamaino.

Bello – anche se un po’ prevedibile – il richiamo alla natura (le sculture germinanti di Precious Okoyomon, l’immersione nella terra di Delcy Morelos). Interessante il ritorno ai materiali – già assaggiati, va detto, nel 2017 – come la stoffa scelta da Emma Talbot e da Sandra Mujinga per raccontare il corpo. E anche alla pittura: con una sala dedicata alla strepitosa Paula Rego, il crudele racconto sul femminino di Miriam Cahn e l’immaginario onirico di Cecilia Vicuña

Alla fine, però, il me too risulta anche un po’ too much. La sensazione è che non tutto quello che è stato selezionato abbia un valore così assoluto da meritare la presenza in una mostra che abbiamo atteso (almeno noi addetti all’arte) come una luce in fondo al tunnel; che forse voler privilegiare a tutti i costi una donna abbia ristretto le vedute. Davvero per mostrare il disfacimento del corpo era necessaria l’infilata di coratelle stillanti sangue (finto) di Mira Lee? E davvero non avevamo qualcuno – magari un ometto, per correttezza – che sapesse raccontare la crisi del maschio con un po’ più di distaccata ironia rispetto al gigantesco pene afflitto (da tumori, disfunzioni erettili e altre amenità) che Raphaela Vogel attacca a un corteo di giraffe di plastica?

Padiglione italiano, Italian Pavilion, Gian Maria Tosatti, Storia della notte e Destino delle comete – via Instagram

La rivincita del maschio la fornisce il Padiglione Italia, curato da Eugenio Viola e affidato a un unico artista (uomo): Gian Maria Tosatti. Storia della notte e destino delle comete è una medicina concettualmente impeccabile da consumarsi a digiuno – dopo una riflessiva coda – e in un silenzio assoluto, raccomandato all’ingresso e ribadito da cartelli. Una teoria di ambienti spogli e tristissimi, sempre più bui man mano che si procede: lo scenario (teatrale, ma quel teatro che resta un po’ in gola) di una fabbrica dismessa ridotta a un relitto fantasma. Solo qualche lucciola, alla fine, per dare un po’ di speranza.

Mi sa che ha ragione Cecilia: con le ragazze, effettivamente, ci si diverte di più.