“Non come luce” di Isacco Turina, ecco la poesia che si fa ascoltare

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È quando non credi più granché nell’‘io’ e nel ‘tu’, e in quel miracolo terreno per cui puoi arrivare a chiamare il ‘tu’ ‘io’, che riconosci ‘loro’. In Non come luce (Terra d’ulivi edizioni, 2022, pp. 42, € 7,50), la plaquette che raccoglie le poesie scritte tra il 2017 e il 2021 da Isacco Turina, è la voce che senti immediatamente. La ‘loro’, quella che viene più da lontano. Ineludibile come un oracolo pieno di forza. Lo capisci dal timbro grave, fatale. “Beato chi mai inciamperà/ negli attimi eterni/ che ci inghiottirono farfalle/ per risputarci vermi”. Da quel vedere che sfarina in infinite rifrazioni della luce, ma tenendo al centro della pupilla la catastrofe, dove un giorno era il Tempio. Dal tesoro di endecasillabi sparsi a manciate, come semi, gettati a cadere per l’aria come vite che possono crescere anche nel campo dell’astrazione. “Con le parole nascondiamo il mondo”. Che a volte chiedono una sillaba in aggiunta, un di più meraviglioso per dire “la carnale vastità delle montagne”.

Loro, i lontanissimi. Singole voci che volevano parlare per convincere e ora cantano semplicemente le cose come sono. Una figura senza confini (neanche i lineamenti di un volto; figuriamoci nome, età) dice: “Vieni, bambina, ti voglio/ tagliare i capelli. Si salva chi è/ più leggero”. Sono i profughi, ma non semplicemente di questo mare dove va a fare il bagno la nostra minuscola storia. Loro sono il lontano fatto carne. I dispersi in una terra in cui nessuno li sta guidando, “operata e mutilata/ che geme senza doglie fra pareti di cielo”. Il capitolo centrale della Lettera ai Romani di Paolo, l’ottavo, derubato della dynamis di speranza. Il grido lasciato perfezionarsi all’infinito in gola. Ecco perché la poesia diventa un destino che ti scova, ti acciuffa, ti costringe a dire, a contemplare l’inevitabile e basta. A scoprire che anche da lì può passare la pietà che piega, ammorbidisce, irrora.

Le loro pupille compongono le infinite rifrazioni dello sguardo, dove prende senso, e tepore, la parola verità, altrimenti così impoetica. “Ora danziamo sull’orlo dei continenti/ come tappeti sbattuti dal vento”.

Una massa di disperati in fuga dallo ieri e dal domani, dal meridione e dal settentrione: “attendono che nasca/ un profeta dalle loro trincee”. Perché chi sa trovare un equilibrio tra pietà e saldezza?

Ed eccola, la voce sublime, che riesce a vedere dentro le cose: “‘Non come luce, ma come la sabbia/ penetrerete nei loro occhi chiusi’”.

È la grande battaglia dello spirito: riuscire a interpretare “la speciale semplicità di un altro giorno”. Che significa non accontentarsi di certezze puntuali. Il poeta lo confessa indirettamente, con pudore e una forma delicata di desiderio: “Qui rovino e ricreo/ la vuota parola amore”.

Troppo triste limitarsi a confessare che non c’è più niente da dire e neppure da cantare, perché le parole di sapienza non persuadono più. “‘Ho preso ordini da un libro sacro./ Ora li prendo dalla mia automobile.’”

La bellezza, in questi testi altissimi, è una reazione violenta. Poesia dopo poesia, siamo invitati a prendere in mano i pezzi dello specchio in cui possiamo guardare la verità del nostro cuore spaccato dal dolore. A raccoglierli con il polpastrello fino all’ultima scheggia.