Ivano Facchetti: da Caravaggio a Batman

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Batman ELYXir, 2021, 87x73 cm, polimero e resina

C’è qualcosa, in noi esseri umani, che ci porta perennemente a ricercare un appiglio, una via d’uscita, una luce in fondo al tunnel, un barlume di speranza, in ogni occasione ci si presenti per tornare a sentire la vita scorrere nelle nostre vene; questo, stranamente, anche – se non soprattutto – nei momenti di più intenso e irrimediabile buio della nostra esistenza.

Tra le dimensioni della cosa umana, l’astratto rimane indiscutibilmente quella che ha suscitato il maggior fascino in assoluto tra gli uomini e che, per questa ragione, riesce a fungere costantemente da leva per espressioni dello spirito che abbiano a che fare con l’altezza della vita: la morale, la giustizia, l’etica, la misericordia, la rettitudine e altre – infinite – di queste ingombranti e voluminose suggestioni, infatti, sono, da sempre, per chi ha il coraggio di coltivarle, il faro più luminoso e certo da perseguire in questo scricchiolante e insidioso cammino delle nostre giornate.

Il grande equivoco dei nostri giorni, però, è che la ricerca dell’icona a cui guardare, del simbolo a cui rifarsi, dell’esempio a cui ispirarsi, del fascio di luce da cui farsi trafiggere per migliorare è, spesso, ahinoi, ricercato nel banale, dozzinale e, soprattutto, sovraccarico mondo delle cose concrete e tangibili: perdendo di vista, così, purtroppo, quell’assioma incontrovertibile secondo il quale, le migliori espressioni del mondo materiale che ci circondano, in realtà, semplicemente, non siano altro che la naturale conseguenza di moti interni molto più alti e astratti; immaginari ma non per questo fumosi, intangibili ma con ciò non evanescenti, invisibili ma non inutili.

Quel “cielo stellato sopra” (di me) e quella “legge morale dentro” (di me), invocata e vergata da Immanuel Kant, probabilmente, è quanto di più vicino a questo ragionamento abbiamo ereditato per comprendere ciò che si vuol intendere. Giacchè, entrambe le dimensioni, sia quella delle stelle che quella della morale, sottointendono una ricerca: quella stessa ricerca che, da sempre, ha attanagliato le vicende degli uomini e che, beninteso, non ha bisogno di approdare ad un risultato concreto per essere soddisfatta. Per molti, il senso della vita, infatti, non è un caso che si trovi nella ricerca del senso e non nel conseguimento dell’obbiettivo di raggiungerlo. L’indeterminato, il teorico, il vago, il fantasioso, l’ideale, sono quanto di più prezioso e opulento si possa incontrare nel corso della ricerca e dell’immersione nell’immaginario; e, da questo punto di vista, l’arte è ancella, vascello dalle vele piene e spiegate, per essere traghettati in quel mare di trepidazioni che accompagnano il nostro tempo.

Da questo punto di vista, tutta l’Arte, in un certo senso, potrebbe dirsi Pop: inteso come una vicenda del popolo, degli uomini; i quali, creandola o contemplandola, dominano e subiscono, sognano e patiscono, il pesantissimo compito di questa materia così immateriale e pure così determinante, sebbene nelle sua poetica indeterminatezza. L’indeterminatezza dell’Arte, infatti, ha a che fare non solo con la esuberante capacità che possiede di superare i confini del significato e dell’estetica possibile ma, anche, con la forza di non badare a spazi e tempi, a luoghi ed epoche: tramite il suo potere intrinseco, endemico, insomma, di esondare gli argini del regolamento del mondo e, anzi, fornirne una valida e provocatoria alternativa, opzione, sempre contemporanea, attuale, consultabile.

Al pari di come, dunque, Andy Warhol provocatoriamente diceva “io provengo da Giotto”, sottointendendo ed evidenziando un fil rouge possibile – con l’artista toscano così distante e diametralmente opposto da lui – per il sol fatto che incontestabilmente così fosse, Ivano Facchetti ragiona sul tema del classico, dell’intramontabile, del sempreverde, per andare a sollecitare e solleticare quelle corde probabilmente impolverate da troppo tempo poichè date per scontate, per acquisite, che adoperano, sì, scenari ed immagini che ci appartengono e che risultano facilmente riconoscibili, codificabili, ma che, anche, nascondono punti di vista, prospettive, significati e riflessioni nuove, forse mai esplorate e che nicchiano, beffarde, al patetico di ciò che attorno ci accade quotidianamente.

Batman, 2021, 87×73 cm, polimero e resina

L’opera di Ivano Facchetti è come un documentario, un costante Blob, una cartina di tornasole di quelle che sono le tendenze della modernità. Quella modernità che, il più delle volte, partorisce aborti senza vergogna, spietate sentenze di demerito, consacrazioni vane e pericolose che lui, osserva, rielabora e mette in scena con un gesto, spesso monolitico, spesso autonomo e autosufficiente, talvolta volutamente autoreferenziale, che è specchio ragionato e critico di un tempo che erode, che si sgretola, che dura il tempo di esistere o addirittura di essere solo pronunciato: per poi essere dimenticato, se non ci fosse stata la testimonianza artistica dell’Autore a lasciarne traccia ironica e intelligente.

Rabbitt, contesto studio, con opera intera, 2021, 140×110 cm, legno e tecniche miste

Ivano Facchetti mette sul piedistallo, sul banco del pesce, sotto i riflettori, sul palcoscenico del mondo che perde pezzi e ne crea di nuovi, tutto ciò che attraversa il nostro tempo con la rapidità della cometa e l’illusione del “fondamentale che poi fondamentale non è”. E naviga, sguazza, sofisticatamente giudica, analiticamente critica, questa incapacità di noi nuovi esseri umani di riconoscere ciò che vale e ciò che non vale, di idolatrare ciò che ha il diritto di restare e ciò che invece dovrebbe sparire; in poche parole, paradossalmente, questa nostra dimenticanza del fatto che la vera forza di quell’inarrivabile e infallibile Dio in cui crediamo non risieda in altro che – alla fine – nell’essersi rivelato uomo, con tutta sua fallibilità arrivabile, lo disturba al punto da farla diventare il punto centrale della sua opera. L’esserci dimenticati, insomma, di ciò che, come un monito, ci diceva Lucio Dalla con le fatidiche parole “l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normali”.

Ivano Facchetti ha capito che gli eroi stessi, ormai, sono mortificati dal contemporaneo, poichè tutto è raggiungibile, ottenibile, arrivabile. Ma non nel senso nobile, per esempio, che emerge dal film di Christopher Nolan (“The Dark Knight”, 2008) in cui si specifica che “oguno può essere un eroe, se ha il coraggio di esserlo”, quanto purtroppo nella sua accezione opposta – sempre evidenziata nello stesso film – per cui “o muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”. Poichè il nostro tempo, ahinoi, s’impone come un tritacarne, come una macchina mangia tutto che fagocita ogni cosa che incontra, senza distinzioni: ingerendo il bene e il male come se non vi fosse alcuna differenza. E, quado questo accade, Ivano Facchetti, a quel punto, è questo quello che fa: prende la sindone dei nostri idoli, la loro accartocciata sagoma, la loro rattrappita e svilita indole e la crocefigge, così come è, sulle sue tele, senza cambiare nulla o tentare illusoriamente di migliorarla; senza retorica o sentimentalismi di sorta, insomma; giusto per farci render conto, dopo un primo impatto brillante, quasi fanciullesco, del guaio che abbiamo combinato e che, senza accorgercene, senza freni, in nome del luccicante a tutti i costi, continueremo a combinare.

Ne è passata di acqua sotto i ponti, in fine, da quel “Superuomo” di dannunizana o nietzschiana memoria che prevedeva l’esaltazione del Sè, come margine di miglioramento prima di tutto individuale e poi per il mondo. Ne sono passati di punti di vista e di avventure da quando il Supereroe, da Superuomo, tende ad oggi, ad esser Oltreuomo, scadendo nella berlina delle cose e in un se stesso inconsistente e vuoto.

Ivano Facchetti ci ricorda, in conclusione, che l’unico modo per risorgere è partire e affidarsi a noi stessi. Da quell’icona, da quell’idolo, che, sepolto, forse dormiente, immoto ma non inerte, in realtà, principalmente, alberga dentro di noi e vuol cercar la via per esistere di nuovo e ancora. Ripartire, sì, ma non dall’esterno: bensì dall’interno.

Quello stesso interno profondissimo che, per esempio, giusto per rimanere in tema, permetteva a Bruce Wayne di scomodare, chiamare in causa e far fuoriuscire Batman o, molto più dicotomicamente e fascinosamente, a Michelangelo Merisi di scomodare, chiamare in causa e far fuoriuscire Caravaggio. Quell’Hyde virtuoso che c’è in ogni normodotato Jekyll. Insomma di adoperare la migliore versione non di qualcosa, ma innanzitutto di noi stessi. Cercando e trovando in noi quell’idolo solido da cui ripartire, senza scadere in quell’imbarazzante senso del ridicolo che ha livellato tutto: finanche quegli sparuti sprazzi di eccezionale, di degno di nota.

Ivano Facchetti ci ricorda che, insomma, il bene e il male, il sublime e il patetico, l’eccezionale e il trascurabile, sono dentro di noi: basta sono imparare, di nuovo, senza dimenticarlo mai più, a stimolare ciò che conta.