Il non credere di chi non è mai entrato in una chiesa dove si cantava un Kyrie in gregoriano non è credibile. Forse parlerà anche di questo monsignor Giuseppe Liberto, direttore emerito della Cappella musicale pontificia, nella conferenza che lo vede protagonista, sabato 4 settembre, alle ore 9.30, nel teatro antico del Seminario maggiore di Padova, che apre la rassegna di musica sacra “In principio”, organizzata dall’Ufficio per la Liturgia della diocesi in collaborazione con l’Orchestra di Padova e del Veneto.
Le parole del grande compositore e direttore preluderanno al primo appuntamento con la musica, alle ore 12, con l’esecuzione in prima assoluta di Echi dalla memoria di una lettera, di Christian Cassinelli, e al concerto delle 19.30 in Cattedrale, dove verranno eseguiti brani dello stesso maestro Liberto e di Marcel Dupré.
Domenica 5, alle 21, nel Palazzo della Ragione, sarà la volta di “Musiche per il Paradiso di Dante”, di Salvatore Sciarrino. Sabato 11, alle 21, nel Duomo dei Militari San Prosdocimo, Massimo Dal Prà suonerà Mozart e Händel, e sabato 18, alle 18, in Cattedrale, la conclusione con la Missa Brevis K259 di Mozart.
Presentando la rassegna, un unicum in Italia, don Gianandrea Di Donna, teologo e responsabile dell’Ufficio per la Liturgia della diocesi di Padova, ha insistito su quanto sia preziosa l’intesa tra la Chiesa e gli artisti: “Dio e l’uomo dialogano sulla via della bellezza”. Ha poi fatto presente l’importanza della figura di monsignor Liberto, “primo ad aver tentato l’uso della musica a servizio del celebrare secondo la teologia del Vaticano II”.
“In principio” non è infatti occasione di piatto intrattenimento. Aspira a far fare ancora qualche passo verso la comprensione della riforma più fraintesa del secolo scorso: quella liturgica, che non si riduce al passaggio dalla messa in latino all’italiano o al voltarsi del sacerdote verso il popolo in una posa raggiante di accoglimento. La stessa Chiesa non ha fatto propria fino in fondo la teologia del Vaticano II, che intendeva riportarla ai primi secoli di papa Damaso e Gregorio Magno. Il rito romano delle origini è il passo duro (“questa parola è dura!”) del soldato. È il corteo d’introibo che avanza disegnando linee rette e spigoli nell’ossigeno che respiriamo. È il canto gregoriano, capace di generare “dolcemente” la preghiera. Certi Osanna. Certi Kyrie, che piangono la fede che la morte è vinta, che non siamo stati noi a vincerla. Quando la musica sa obbedire alla liturgia assume un’impersonalità quasi architettonica. Sembra trasudare dalle pietre antiche, improvvisamente vive. Ed è, per chi ne viene avvolto, il mare di cui scrive Leopardi, ma la vertigine è più grande, perché l’infinito si fa carne.
I documenti della riforma liturgica presentano il rito cristiano come l’ingresso nel mondo di “quell’inno che eternamente si canta nelle sedi celesti”. La musica diventa il veicolo più prezioso dell’annuncio, purché non si accontenti di assumere atteggiamenti pop, ma passi per un’“assunzione reale dell’umano” nell’accordo di “carne e cielo” – così ancora don Di Donna. Allora le provocazioni e gli slogan della postmodernità diventano “come l’erba dei tetti/ bruciata dal vento di oriente”. Ma di questo non è bene parlare: va trasformato in note che scivolano nell’aria, “come i torrenti del Negheb”.
Ecco, solo se uno ha avuto modo di sentire certe musiche, certi Osanna, certi Kyrie, può, a quel punto, dire no. Se riesce a resistere all’amore.