Viviamo in un periodo che alla fine della storia ha preferito la fine della letteratura, alla vocazione umanistica dello scrivere quella biocritica. Consolare il lettore più che smarrirlo, degradare la parola invece che innalzarla. Facendo dello scrittore una creatura ibrida tra il maestrino e l’imbonitore, che più che risvegliare gli animi preferisce indignarli o rassegnarli. Che sembra sempre più destinata ad essere una “letteratura aumentata più che un’avventura conoscitiva”, è l’oggetto dell’ultimo libro di Walter Siti “Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura”(RIZZOLI). Una raccolta di saggi che indaga su una tendenza letteraria che “scandalizza non perché diventa intrattenimento, ma perché diventa stereotipo”. Stereotipo necessario per rappresentare un Bene corretto e pedagogico, espresso dalle opere del Neoimpegno.
Quali sono le caratteristiche del “neoimpegno”?
Neoimpegno è una definizione che ho coniato per indicare una tendenza che negli ultimi vent’anni ha conferito alla letteratura il compito, quasi terapeutico, di rassicurare il lettore. Mentre gli impegni storici erano dei modi di assegnare delle responsabilità alla letteratura, riferiti a ideologie forti, per Sartre l’esistenzialismo, per Gramsci il comunismo. Entrambe puntavano ad una visione della letteratura come di un complessivo progetto di libertà alternativo allo stato esistente, mentre questo nuovo “compito” affidato alla letteratura è più empirico. È privo di basi complesse, di sistemi ontologici, più che pensare al lettore ordinario pensa ad un lettore banalizzato da educare. Un mix che sicuramente non è rivoluzionario e che tende a semplificare più che approfondire.
Quali sono i principali limiti del neoimpegno?
La tendenza letteraria è più ampia di un gruppo di scrittori. È l’orientamento delle case editrici, degli autori ad un discorso ed indirizzo comune. Che al contrario di Sartre che si chiedeva “che cos’è la letteratura?”, oggi la usano come un altoparlante delle proprie idee, chiedendo troppo poco ad essa. Il cui limite principale è il tasso di retorica che essa comporta, rischiando di passare, non proprio al comizio, ma focalizzandosi troppo sul piano retorico e morale.
E dei suoi esponenti più noti come la Murgia e Saviano?
Nel caso di Saviano, l’impressione che ho avuto come critico letterario, partendo da un libro molto bello come Gomorra, in cui lui si impegnava personalmente nella realizzazione di un libro carnale, credo si sia trovato a confrontarsi con delle attrazioni interne un po’ oscure per il mondo della criminalità di cui ha avuto paura e da cui si è allontanato spostandosi verso una letteratura più propagandistica. Per Michela Murgia è più scontata perché è come se dividesse la sua produzione in due parti. Una più intima in cui si confronta con i propri fantasmi. Un’altra di stampo più illuminista, dove usa la letteratura come arma di combattimento. Lì è da giudicare la profondità con cui si scelgono le persone da combattere, non scegliendo i bersagli più difficili ma quelle più facili, più immediati
Quali sono i bersagli più difficili?
Prima di tutto l’inconscio, tutti quello che a che fare con le nostre pulsioni, soprattutto quelle che sembrano andare verso la contraddizione. Sembrano considerare l’inconscio come inesistente, come una cosa che va contro il dover essere, preferendo quello che la letteratura deve dire, più che quello che può dire. Considerando quello che è in luce e non quello che c’è di involontario di latente, di proibito nella letteratura. I bersagli difficili sono quelli dentro di noi più che quelli in televisione
Cosa ne pensa del politically correct applicato all’opera d’arte?
Penso che la paura che i discorsi d’odio portino con se una forte carica di negatività esista, ma che valga soprattutto nel campo della comunicazione. Sui social per esempio il fatto che un ragazzo fragile venga colpito da un gruppo di persone che lo attaccano è ovvio che è una cosa terribile. Ciò, però, andrebbe affrontato sul piano della comunicazione. Non credo si tratti di qualcosa che a che a che fare con l’opera d’arte. La letteratura, ho l’impressione, che debba mantenere la libertà di poter dire qualsiasi cosa che si vuole dire, anche se contiene degli elementi d’odio. Fermo restando che l’autore debba essere noto e non anonimo, sostenendo, in quanto cittadino, il peso di quello che ha scritto, ma non credo che nel momento in cui scrive non faccia bene pensare alle conseguenze, impedendo di far nascere certe parole dentro ddi si come in una griglia.
E della cancel culture e della rivalutazione canone letterario in base a quote etniche o di genere?
Per quanto riguarda la cancel culture è una cosa indifendibile. L’idea che certe cose del passato possano essere pericolose vuol dire fare della censura. Per quanto riguarda la scuola, per esempio in una classe con dei ragazzi nell’età della crescita, la paura di influenzare o traviarli attraverso certe letture, più che portare ad eliminare alcune opere è forse più giusto fargliele leggere quando essi saranno più maturi, oppure spiegandole con delle note o delle avvertenze. Contestualizzando col periodo in cui furono concepite. Per quanto riguarda il canone è un discorso diverso. Esso è la formazione dei classici. Certamente il canone è iniquo perché esclude etnie, generi e classi sociali. Ma per ragioni storiche relative alla formazione della società. È ovvio che se le donne non avevano un luogo o una opportunità per scrivere non è fiorita una grande letteratura femminile. Non penso, però, si debbano introdurre delle quote etniche o delle quote rosa poiché deve valere sempre il giudizio di valore. Non è giusto accostare un’opera minore ad un classico solo perché lo ha scritto una donna nera.
Progetti per il futuro?
Io mi sono stufato, da quasi due anni, di occuparmi della letteratura altrui, non ne posso più, dall’anno prossimo vorrei scrivere il mio ultimo romanzo. una storia di amicizia tra un vecchio a cui hanno trapiantato il cuore ed un giovane che non riesce a uscire di casa e vive tutta la sua vita in maniera virtuale