Dal Festival di Venezia alla scomparsa di Ettore Majorana: Denise Sardisco tra ricordi e ambizioni

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Nel settembre del duemila diciannove approda al Festival di Venezia un film che resterà nella mente di tutti, vincendo grandi premi in tutto il mondo. La pellicola in questione è “Martin Eden”, un titolo già cult del grande regista Pietro Marcello. Tra i protagonisti, accanto all’eccezionale Luca Marinelli, risalta la giovane attrice Denise Sardisco grazie al suo talento e ad un volto che buca lo schermo. Dopo quell’esperienza è cominciato un viaggio per Denise, quello all’interno del cinema, che l’ha portata nel cast de “Il primo natale” di Ficarra e Picone e nell’ultimo cortometraggio di William Lombardo, “La particella fantasma”.

Denise, dopo aver frequentato delle scuole di teatro a Roma, arriva il tuo debutto sul palcoscenico. So che quell’esperienza è stata per te formativa sul piano personale oltre che su quello artistico. Puoi raccontarci di quel periodo?

Prima di Roma ho dedicato tutta me stessa alla mia persona, ho terminato il liceo, ho fatto teatro. Inizialmente provenivo dalla danza e ho cominciato a viaggiare all’età di tredici anni andando in Spagna, studiandone con passione la lingua e poi, dopo il diploma ho maturato la decisione di andare a vivere a Roma per studiare recitazione. Ho iniziato con Gisella Burinato in un centro intensivo di allenamento per attori che si chiama Ciapa, in cui grazie a lei ho compreso a pieno quello che realmente è il lavoro dell’attore. Precedentemente, negli altri laboratori ho notato una corsa da parte degli insegnanti nell’imporre dei metodi per entrare in un personaggio, come se ne esistesse soltanto uno. Invece sono tanti e spetta all’attore, in base alla sua personalità e al tipo di personaggio cui si pone, capire come affrontare il testo. Dopo un anno di laboratorio con Gisella ho preparato un provino, sotto consiglio di Stefania De Santis, una casting director che mi ha aiutato molto nel mio percorso, per un film dal titolo “Martin Eden” e da lì è cambiato tutto.

Quant’è stata dura dover lasciare “l’amata Sicilia” per inseguire il proprio obbiettivo?

Allora, in ogni periodo della nostra vita probabilmente daremmo risposte differenti in base a tutto ciò che ci accade attorno. È stato difficile lasciare la Sicilia ma è stato molto più difficile, arrivando a Roma, lasciare le maschere che la Sicilia ti fa indossare in un certo senso. Questo non l’ho mai detto, quindi grazie.

Poi, improvvisamente vieni contattata per un provino in cui per la prima volta ti trovi davanti al regista Pietro Marcello. Un provino che cambierà la tua vita…

I presupposti che tu tifai dopo un lavoro così importante non rispecchiano mai quello che poi effettivamente potrebbe accadere. Quindi credo che quel momento vada vissuto senza pretese e senza delle aspettative, io l’ho vissuto semplicemente come in una fiaba e al meglio, assaporando tutta l’atmosfera e tutta la magia che c’era attorno e di quello mi nutro per continuare il mio lavoro e per cercare di dare sempre il meglio.

Che tipologia di regista è Pietro Marcello? Come lavora con i suoi attori?

È un documentarista. La cosa che apprezzo di lui è che è sempre alla ricerca della verità, provenendo dal documentario, quindi ha un approccio assolutamente naturale, vero e umano. È uno che ti contagia artisticamente, per cui viene tutto da sé. Poi Pietro ama improvvisare perché per lui gli attori sono prima di tutto delle persone, quindi vuole conoscere il nostro punto di vista rispetto al personaggio, così da poter spogliarci della sceneggiatura. Attraverso l’improvvisazione cerca degli elementi che in realtà possano identificare meglio ogni personaggio.

Dopo che sei stata scelta per il film, come hai lavorato al testo?

Lo studio è avvenuto già prima del provino, perché ho letto “Martin Eden” sotto consiglio di Stefania De Santis e già attraverso quella lettura avevo cominciato a conoscere il personaggio di Margherita, poi nella sceneggiatura il personaggio è stato definito in un modo eccellente e il lavoro che ho fatto con Pietro è stato del tutto naturale. Io mi sono ispirata alle donne sicule, dato che hanno quel senso di protezione nei confronti degli uomini. Per Pietro non era importante che tutti i personaggi avessero un’aria napoletana, il bello era quello di mischiare le diverse culture, le diverse lingue e quando mi ha sentito parlare sulle corde delle mie radici linguistiche, ha trovato verità in quei suoni e ha voluto che recitassi in siciliano nel film. La fortuna è stata poter tornare nella mia terra per osservare, appunto, queste donne da vicino e credo che per un’attrice sia fondamentale. In fondo i libri servono come approccio culturale al mestiere ma poi bisogna studiare per strada, osservando da vicino la vita e le persone che incontriamo. Ad esempio, io ho trovato ispirazione nella storia della mia bisnonna, prendendo qualunque dettaglio necessario, anche perché nella vita sono tutto fuorché Margherita.

In effetti la pellicola è caratterizzata dal miscuglio di dialettali lingue, epoche, luoghi. Aleggia un’aria metafisica, di sospensione degli spazi temporali, come se vivesse in un quadro tutto suo, aldilà di ogni epoca. Per questo trovo il film meraviglioso. C’è però una scena che mi ha colpito molto, quando le due donne di Martin s’incontrano al termine di una conferenza e c’è uno scambio tra i loro sguardi molto breve ma di una forte intensità. Come hai lavorato su questo dettaglio?

Quello è un momento ambiguo di complicità tra queste due donne. Una complicità che si mischia con la compassione che loro hanno verso quest’uomo perché entrambe hanno capito di averlo perso. Margherita perde il suo amato quando egli stesso si perde e nella scena che hai citato lei osserva Elena quasi come se si specchiasse in un dolore che in entrambi i casi si è verificato e nonostante la freddezza tra le due, c’è una forte tristezza nei loro cuori. Entrambe hanno amato lo stesso uomo ed entrambe ne soffrono. Poi Margherita rappresenta quella luce che Martin non vuole più vedere, gli ricorda le sue origini, la vita vera che ha perso e dunque lo irrita, perché gli ricorda chi è stato e da dove viene. Ad esempio nella scena delle camicette, Martin la invita ad essere come lui dicendole di spendere tutti i soldi per sé e in quel momento è come se urlasse a sé stesso.

Com’è stato il rapporto con Luca Marinelli?

Di grande professionalità. Luca è un attore straordinario, camaleontico, riesce davvero a cambiare in un modo pazzesco e lo ammiro moltissimo.

Questo capolavoro è stato per te un vero trampolino di lancio nel grande cinema. Qual è stata la prima cosa che hai pensato non appena ti hanno confermato la prima a Venezia?

Tanta felicità perché non pensavo che in così breve tempo e al primo film sarei approdata al Festival di Venezia. Io sono di un paesino di provincia, Monreale, e provengo da una famiglia che non ha nulla a che fare con questo campo per cui all’inizio ero disorientata. Avevo una valigia piena di sogni e niente più e dunque, soltanto dopo essere tornata dal Festival, guardando le foto ho detto: “Sono stata al Festival di Venezia.” Per me è un biglietto da visita come attrice ma non solo, in fondo è anche una storia personale che potrò raccontare ai miei nipoti e che di sicuro mi ha lasciato un’impronta importantissima. Ogni volta che dico di essere fortunata le mie amiche, attrici e non, mi dicono sempre: “Denise, non dire che hai avuto fortuna perché hai lottato duramente per un obbiettivo e i frutti che ne raccogli sono figli del tuo impegno.”

Dal tuo esordio non hai smesso di interpretare ruoli totalmente diversi fra loro, per altro molto complessi e ricchi di sfumature. Ad esempio, chi è Maria Majorana?

Maria è la stella di Ettore Majorana, è la sorella amata. Ettore nutriva un fortissimo amore verso di lei e così, il regista William Lombardo ha deciso di realizzare un cortometraggio legandosi totalmente a questo forte sentimento che univa i due fratelli. Lei è una donna forte, un personaggio che negli anni trenta già porta i pantaloni e addirittura risponde ad un gerarca fascista, nel profondo è una ribelle. Di sicuro è un personaggio che mi rispecchia abbastanza, una combattente che non si ferma di fronte a niente, neanche al diluvio universale.

Perdonami se ti chiedo banalmente quanto sia importante per un attore essere combattente e andare avanti nonostante i tanti no che si hanno a inizio carriera? Passando anche per i pregiudizi che le persone hanno inizialmente verso qualcuno che dice di voler fare questo mestiere e quelli che ognuno può avere su un personaggio.

Guarda, io a diciott’anni mi sono diplomata con una tesina che come titolo aveva “Il pregiudizio”. Ricordo che Gisella Burinato ci disse a noi allievi che la prima cosa che una persona deve togliere se vuole fare questo mestiere è togliersi i pregiudizi. Un attore non deve mai giudicare un personaggio, altrimenti alza un muro e questo rende le cose impossibili. Bisogna saper entrare nelle vesti degli altri e capirne la psicologia e le azioni, come accade nei rapporti umani, non si può giudicare qualcuno puntando il dito altrimenti non creerà alcuna connessione. Nella recitazione bisogna capire cosa abbia indotto un determinato personaggio a pensare in un modo o ad agire in quel modo, senza giudizi ma entrando appieno nella sua coscienza. Io sono stata a volte criticata, soprattutto al primo corso di recitazione in cui l’insegnante mi rimproverava il fatto di essere poco competitiva. Io credo che la competizione sia importante, ma lo è ancora di più l’arte e quindi, se un’attrice è più adatta ad un ruolo rispetto a me, chapeau. Se tu pensi che devi fare una cosa meglio di un’altra persona ti focalizzi su quello, perdendo l’obbiettivo principale che è quello di crescere, di imparare anche osservando gli altri. In questo mestiere nessuno inventa nulla, tutti s’ispirano a qualcuno.

Mi fa estremamente piacere quello che dici, anche perché credo che un problema del nostro paese sia l’eccesso di (pseudo)dive e poche attici. Passando avanti, William Lombardo ti ha definita: “Un’attrice totale perché vive per questo mestiere. Avrebbe potuto giocare a fare la diva, invece amava stare sul set ed osservare tutti i reparti.”

Per me fare l’attrice non significa soltanto leggere la sceneggiatura, imparare la parte, lavorare sul personaggio e basta, credo che devi conoscere l’ambiente in cui vivi perché è importante sapere il più possibile del set. Anche in “Martin Eden”, nei momenti in cui non giravamo chiedevo di poter stare sul set in maniera silenziosa per osservare il lavoro di tutti i reparti per comprenderli da vicino, per studiarli insomma. Ne “La particella fantasma” mi sono sentita spesso dire grazie, magari da un operatore o da qualcun altro, perché su un set il tempo è denaro e quindi se tutti sapessimo più cose e mettessi un briciolo di amore e di attenzione in più si potrebbero fare molte più cose e in maniera migliore. Quindi, se io so che l’operatore va a destra perché lo vedo con la coda dell’occhio, io lo aiuto e lui aiuterà me. Amo stare sul set e imparare cose nuove, sempre. Poi, diciamo che sto mantenendo tutte quelle sensazioni del Festival di Venezia per quando dovrò impersonare una diva e gliele lascerò a lei.

Trai i tuoi ricordi siciliani quale ti commuove di più?

Il periodo a Giarre con mia mamma e mio papà.