Un giocatore non si giudica da un calcio di rigore, cantava De Gregori, ma dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. Valerio Mastandrea coraggio e altruismo ce li ha messi, ma la fantasia è mancata, sia a lui sia all’autore che – lo scorso 18 febbraio – ha provato a lanciare. Il ragazzo (lo scrittore Daniele Manusia) si farà anche se ha le spalle strette: il suo campo di azione e i temi trattati sono un po’ circoscritti al calcio, una comfort zone in cui neanche eccelle.
Si è consumata nei giorni scorsi una cocente delusione senza che nessuno se ne accorgesse. Roma è una città di cinema, di teatranti, di aspiranti scrittori e di talenti più o meno geniali. Daniele Manusia, 40 enne legato al giro della Roma popolar chic (quella che non ha problemi ad arrivare alla fine del mese e che si incontra nelle osterie di Testaccio, San Lorenzo e Trastevere), è uno scrittore che fino ad ora si è cimentato su Daniele De Rossi ed Eric Cantona, ed ora anziché cambiare strada per misurarsi con qualcosa di diverso sceglie il “mito” del calciotto come trattato di sociologia e metafora della vita. Quello che una volta chiamavamo calcetto, per chi frequenta certi circoli, ha solo allargato porte e campo e necessita di un paio di giocatori in più per squadra. Non cambia molto, è un po’ la moda del padel applicata al pallone, anziché al tennis e al caro vecchio squash.
Manusia ama soffermarsi sull’aspetto antropologico della partita, con la ricaduta che ciò comporta nel mondo circostante, senza accorgersi di trasferire nel testo quella sensazione di chi sta per dire la cosa giusta ed eclatante, quasi una sorta di arrivismo letterario. Parlare di calcio con l’ambizione di raccontare il mondo deve essere qualcosa di naturale e magico, un talento e una capacità che forse Manusia ancora non ha, lasciando relegato il suo testo ad un cerchio di fan, al campetto dove la partita di calciotto si consuma, senza riuscire a bucare la rete e la pagina per andare oltre, e farsi metafora di altro. Né, c’è da dire, che il suo mentore sia riuscito a bucare il video.
Lo scorso 18 febbraio solo 1150 persone hanno assistito, dalla pagina Facebook della casa editrice The Passenger Italia, alla lettura di Valerio Mastandrea tratta dal testo di Daniele Manusia proprio sull’ode del calciotto, appena 300 invece le visualizzazioni su YouTube.
Ecco un passaggio dal racconto: «Il giorno della partita c’era sempre qualcuno che si tirava indietro. Perché magari pioveva o faceva freddo. Perché giocavamo troppo presto o troppo tardi. Per un impegno lavorativo improvviso, un problema alla macchina, o qualcosa di più serio – una volta a uno del gruppo è morto il cane il giorno della partita. Mi manca l’ansia di avere un giocatore in meno, a volte persino due. Nessuno di noi era l’organizzatore ufficiale del calciotto, ringraziando dio, l’ansia era condivisa: scarrellavamo le nostre rubriche WhatsApp e ci aggiornavamo appena uno trovava un amico disposto a venire con poco preavviso; oppure scrivevamo post pubblici sperando che per una volta Facebook fosse veramente utile a qualcosa. Nei periodi migliori invece eravamo troppi e quelli arrivati troppo tardi sul gruppo restavano fuori. Avevamo creato un sistema che non era perfetto ma ci sembrava quanto meno il più giusto possibile: avevamo un gruppo chiuso in cui uno di noi pubblicava il venerdì un post per la partita del lunedì dopo e nei commenti ci si segnava per rientrare nei sedici. Se qualcuno rimaneva fuori veniva automaticamente iscritto alla partita della settimana successiva».
Poco più di un tema da scuole medie o da liceo o un post sui social passato per racconto crepuscolare, che alla prova del contatto con il pubblico – seppur virtuale – ha fatto flop, anzi non ha fatto gol. E pensare che, in epoca di social network e di condivisioni, basta poco perché la cosa diventi virale. Ricordiamo, ad esempio l’omelia dello stesso Mastandrea in occasione di Manchester United – Roma 7-1 con 300.000 visualizzazioni solo su YouTube o le recinzioni del Palomba (ma l’elenco da citare sarebbe lunghissimo). Oggi come oggi qualche decina di migliaia di views non si negano a nessuno e se hai Mastandrea come padrino il successo è quasi assicurato.
Ma siamo di fronte ad un racconto piatto, modesto, senza pathos, che invece di appassionare pare perfino compiacersi, lontano anni luce dalla scrittura dei più bravi narratori della materia, da Giorgio Porrà a Matteo Marani, da Simona Ercolani a Gianluca Arcopinto, che davvero usano il calcio per accennare sì le gesta epiche, attraversando però storia, storie, arte e cultura, lasciando spesso la partita sullo sfondo come fosse un pretesto. Perché ciò che resta in noi di un gol o di una giocata, è la meraviglia del gesto atletico capace di fermare il tempo. E quel tempo diventa parte centrale della narrazione.
Uno scrittore che si occupa di Daniele De Rossi ed Eric Cantona (lo hanno fatto meglio Tonino Cagnucci e Andrea Romano) che può permettersi Valerio Mastandrea come padrino dovrebbe spiccare definitivamente il volo. Ma non ce l’ha fatta. E c’è almeno una ragione da ricercare. Si chiama Mattia Torre. La prematura scomparsa del genio della narrativa, del teatro e della scrittura cinematografica degli ultimi 20 anni (pensiamo a “Boris” solo per l’esempio più eclatante), ha lasciato un vuoto incolmabile e ha generato una caccia a qualche presunto erede capace di mettere in prosa brillante la normalità della vita quotidiana. Ma le condizioni richieste sono altissime: guizzo, originalità, raffinatissima ironia ed intelligenza. Il metodo Mattia Torre ad oggi non conosce epigoni.
Ma cosa c’entra il meraviglioso autore de “In mezzo al mare”, “Migliore”, “È sempre colpa di un altro”, “Gola” e tanti altri scritti con Daniele Manusia? Francesca, vedova del povero Torre, è stata compagna universitaria del presunto enfant prodige, ne è tutt’ora grande amica, e con la sensibilità e la generosità che le appartiene (è stata attrice e ha lavorato in teatro per Duccio Camerini) avrà rintracciato in Manusia qualche talento che le ricordasse vagamente suo marito. Non a caso a leggere l’atto unico è stato Valerio Mastandrea che, di Mattia Torre, era diventato l’attore feticcio.
Purtroppo però l’esperimento non è riuscito: presentatosi sul palco dell’Argentina per la performance, Mastandrea ha dato vita ad una lettura monocorde, appesantita da qualche pausa sbagliata, risultando noiosa e in fuorigioco, non riuscendo nel compito (arduo, colpa del testo e non sua) di evocare l’allegoria.
Se porti Shakespeare al cinema non puoi non considerare che, prima di te, lo hanno fatto Branagh e Zeffirelli, così come García Márquez, Gianluca Arcopinto o Mattia Torre hanno lasciato dei “metodi” e tracciato delle strade che puoi decidere di non seguire, ma che allora non devi neanche scimmiottare.
Qualcuno disse che un grande attore è in grado di recitare bene anche l’elenco del telefono. Vittorio Gassmann lesse il menù di un ristorante e fu un capolavoro, ma quello era Gassmann. In questa circostanza, invece, pare ci sia un concorso di colpe: un attore mai così fiacco (forse non credeva fino in fondo a ciò che aveva davanti) e, sul leggìo, un autore ancora molto in erba che forse, chissà, si farà. Ma che ancora troppe suole e macchine da scrivere dovrà consumare.