E il resto, direbbe Nietzsche, “è solo il genere umano”…

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Foto di Pexels da Pixabay

I famosi momenti del bisogno. Maledetti. Non dovrebbero mai esserci, perché già sei lì con lo schifo che ti soffoca, mancano solo i momenti del bisogno.

Zero. Solo fastidi, e zero “se hai bisogno dimmi sai”. Zero “l’amicizia, l’ascolto”. Zero. Tutte le frasoline zuccherose di una vita. Lévinas, Buber, “il Volto dell’Altro”. E anche di più, molto più. Come in quel meme che gira con uno che dice una roba tipo ti amerò fino a scalare tutte le montagne, fino a navigare per tutti i mari (insomma spianare monti, innalzare valli…): ci vediamo sabato, se non piove. Appunto. E piove.

Piove a secchiate nerastre oleose. Piove il bisogno di ennemila cose, di ennemila parole e pensieri intelligenti. E invece devi rimboccarti le maniche fino alla frangia dei capelli e arrangiarti in tutto. La forza che metti nei muscoli della mandibola basterebbe a trainare un tir. Carte da maneggiare. Telefonate da fare. Certificati. Documenti. Fotocopie. Uffici. Mascherine. Covid. Igienizzanti. 8.15. 13.15. 16.15. Torna a casa come un fulmine, perché c’è anche l’altra roba da continuare a far funzionare, la vita.

La tua povera e magra persona gira nell’incubo della città smaterializzandosi a ogni angolo. E le notti in cui dormire non è così automatico e certe immagini ti rimbombano davanti agli occhi – sbarrati, ovvio.

E quelli invece che rompono perché il cane abbaia sul terrazzo della strada più trafficata della città. In pieno inverno: quindi, plausibilmente, con il vicinato disturbabile a finestre chiuse. E l’animalista che rompe perché è freddo per tenere un cane – il cuginetto frou frou del lupo – in terrazzo. E il fango sulle scale. E.

E la tipetta indottrinata dal colosso della telefonia che le tira fuori tutte invece di disdire quel diavolo di contratto di un iPad rotto da almeno un anno, che lui – in fondo disinteressato a certe cose, in fondo buono, in fondo innocente, in fondo almeno un po’ diverso – continuava a pagare per distrazione. La tipetta ti guarda con la sua faccia piatta e se le inventa tutte, la privacy, la norma, il codicillo. E tu continui a fare vie, a girare angoli, a sparire seminando la tua ombra, e ti sembra tutto impossibile.

Finché chiami per disperazione il numero di tre cifre, mettendoti già a sbuffare, mentre sfiori il vetro pieno di crepe sinuose dello smartphone pensando a quanti minuti di Per Elisa dovrai trangugiare, e quando risponde la voce computerizzata dici tra te no, gridi no, piangi no, ma ti attacchi a quel punto di energia che c’è sempre nella disperazione, una punta proprio, ma letale, dici, alla macchina: “è deceduta una persona”.

E lui, lei, la macchina insomma, capisce. E in due minuti la cosa è aggiustata. Il colosso della telefonia prende atto che X Y, tuo padre, è morto.

Il resto, direbbe Nietzsche, “il resto è solo il genere umano”.